Le Istituzioni europee sono attualmente impegnate nella disciplina di un certificato vaccinale o, meglio, di un attestato sul COVID-status delle persone, che consenta di coniugare l’esercizio della libertà di circolazione con la tutela di altri diritti di fondamentale rilievo, quali la salute – le esigenze della cui protezione sono risultate sino a ora predominanti – e la privacy.
Nonostante le molteplici difficoltà che ne stanno caratterizzando le dinamiche di acquisizione e somministrazione, la diffusione dei vaccini induce infatti a sperare che le restrizioni alla libertà di circolazione possano essere allentate grazie all’innalzamento del livello di immunità.
Basandosi su tale auspicio, da qualche tempo alcuni Paesi dell’Europa meridionale, preoccupati dalla prospettiva di una riduzione dei proventi del turismo estivo, hanno proposto l’introduzione di una sorta di passaporto COVID, da rilasciare alle persone vaccinate, il cui possesso consenta un agevole attraversamento delle frontiere, incentivando così la ripresa dei viaggi oltre confine. L’idea, lanciata in taluni ordinamenti anche sul piano nazionale per permettere la partecipazione a eventi di carattere sportivo o culturale, è stata inizialmente avversata da altri componenti dell’Unione (fra cui Francia e Germania), che da un lato ne mettevano in discussione l’utilità, a fronte della ancor bassa diffusione del vaccino e dei dubbi sulla sua efficacia, dall’altro lato ne evidenziavano l’effetto potenzialmente discriminatorio nei confronti di quella parte della popolazione che non si sottopone al trattamento e persino il pericolo che il possesso del certificato diventi un fattore di incentivazione all’imposizione dell’obbligo vaccinale. Appoggiata da un numero crescente di Stati dell’UE, la proposta ha visto progressivamente convergere la quasi totalità di essi sull’opportunità di essere quantomeno presa in esame, imponendosi altresì all’attenzione dell’Unione, le cui Istituzioni si sono inizialmente limitate ad affermare la potenziale utilità di un certificato vaccinale a fini medici, per poi accogliere l’idea del suo utilizzo ai fini dell’attraversamento dei confini.
In particolare, il 17 marzo la Commissione ha adottato un pacchetto di misure che include una comunicazione e la proposta di due regolamenti, su cui è stata avviata la procedura legislativa ordinaria.
Se approvate, tali innovazioni porteranno alla realizzazione di un certificato (che, originariamente denominato “verde digitale”, è diventato “Certificato COVID-19 dell’UE” in una proposta del Parlamento) il cui possesso consenta a chi ne è titolare di attraversare le frontiere senza doversi sottoporre agli ulteriori adempimenti relativi al COVID previsti dallo Stato di destinazione o comunque a condizioni più agevoli. Il documento verrebbe rilasciato a tre categorie di persone: coloro che attestino l’avvenuta sottoposizione al trattamento di profilassi con uno dei vaccini riconosciuti dall’Unione o con un altro autorizzato dallo Stato di appartenenza; coloro che siano in possesso dell’esito negativo di un test; coloro infine che abbiano contratto la malattia e ne siano guariti.
L’utilizzo dei pass deve essere disciplinato in modo da non risultare discriminatorio nei confronti di coloro che ne sono privi – che continueranno a viaggiare rispettando le condizioni imposte nel caso specifico – e da consentire il rispetto della privacy, contenendo quindi il minor numero di informazioni possibile.
Posto che la messa a punto di questo strumento non potrebbe che risultare utile ai fini dell’esercizio della libertà di circolazione in ambito europeo e, qualora la sua diffusione si estendesse ulteriormente, anche internazionale, con ripercussioni positive ai fini del godimento di altri diritti umani, oltre che sul piano economico, la sua realizzazione non manca di prospettare numerosi aspetti di problematicità che dovranno certamente essere risolti.
Per menzionarne solo alcuni, occorrerà innanzitutto sciogliere il nodo politico, che vede alcuni Stati membri ancora perplessi sulla proposta e altri intenzionati a darvi al più presto attuazione, anche in autonomia. In secondo luogo, sarà poi necessario che i diversi ordinamenti si adeguino dal punto di vista degli strumenti necessari a consentire l’uso di uno strumento che possa essere “letto” a Tallinn come a Lisbona, a Praga come a Parigi, considerando che, se l’obiettivo è permetterne l’utilizzo nella prossima stagione estiva, il tempo a disposizione è davvero poco.
Altre questioni concernono i profili di carattere scientifico dei pass in relazione alle tre categorie di soggetti che ne possono risultare titolari. Prescindendo dalle perplessità relative all’efficacia del trattamento preventivo nel garantire la non trasmissibilità della malattia, un primo problema attiene alla possibilità, prevista nelle proposte europee, che gli Stati membri considerino validi ai fini del rilascio del certificato vaccini ulteriori, oltre a quelli riconosciuti dall’Unione.
Ulteriori interrogativi interessano, per la categoria dei viaggiatori in possesso di un referto di negatività, la tipologia di esame considerato idoneo ad attestarlo (aspetto su cui l’Unione europea ha fornito delle linee guida), che includerebbe non solo il test c.d. molecolare, ma anche quello c.d. rapido, la cui attendibilità viene messa talvolta in discussione, nonché il momento della sua effettuazione (su cui il Parlamento europeo ha aggiunto maggiori precisazioni). Un alone di incertezza connota altresì le previsioni sui soggetti che hanno recentemente contratto e superato il virus. Sul punto la normativa europea dispone la concessione del pass a coloro che, risultati positivi, siano in possesso di un certificato di guarigione rilasciato a partire dall’undicesimo giorno dalla data di effettuazione dell’esame (o, nel documento del Parlamento, in presenza di un test negativo o di un’analisi sierologica) e per un periodo non superiore ai 180 giorni (90, nel testo del Parlamento) da tale momento, termini che la Commissione avrà la facoltà di modificare. La consapevolezza della difficoltà di determinare con certezza il numero di giorni in cui coloro che sono stati affetti dal COVID possono essere considerati immuni induce a nutrire alcune perplessità sulla scelta, pur basata su evidenze scientifiche, di ritenere “sicura” questa categoria di viaggiatori, soprattutto nel caso in cui essi si trattengano all’estero per un periodo che ecceda il limite di validità del certificato.
Altrettanto complesse paiono le questioni di carattere pratico, che variano innanzitutto a seconda del mezzo che si utilizzerà per recarsi in un altro Stato. Per quanto ad esempio riguarda l’attraversamento dei confini terrestri (che dovranno quindi rimanere presidiati), immaginando che siano previste corsie distinte e, soprattutto, restrizioni differenti, per i soggetti muniti di pass e quelli che ne sono privi, sorge spontaneo domandarsi come si dovrebbe comportare una famiglia o una comitiva, in transito su unico mezzo, all’interno della quale alcuni componenti siano vaccinati o, comunque, considerati COVID free e altri no.
Anche di fronte a una soluzione delle questioni politiche, molteplici nodi rimarrebbero quindi da sciogliere sotto il profilo strumentale-tecnologico, medico-scientifico e anche operativo, auspicabilmente attraverso scelte comuni che consentano di circolare alle stesse condizioni almeno all’interno dello spazio Schengen. La loro elaborazione richiederà un impegno notevole su più fronti, incluso quello del bilanciamento con gli altri diritti coinvolti, a cominciare dalla riservatezza dei dati, ma gli sforzi necessari per la messa a punto del certificato saranno compensati dalla possibilità di riprendere, con regole omogenee e meno restrittive di quelle attuali, a esercitare quella libertà di circolazione il cui godimento è un asse portante di tutta la costruzione europea.