Il panel dedicato a “I federalizing processes attraverso le Corti. Una riflessione a partire da alcuni casi paradigmatici”, presentato a ICON-S Italia 2023, ha visto l’esame di alcuni casi paradigmatici impattanti su ambiti materiali di particolare rilevanza: il federalismo bosniaco, il caso delle famiglie omogenitoriali, la 'giurisdizionalizzazione' della moneta. La riflessione congiunta si è posta come obiettivo l’individuazione non solo delle conseguenze applicative dei federalizing processes in atto a più livelli, ma anche dei suoi presupposti. Le riflessioni si sono infatti dispiegate tanto sui presupposti, quanto sulle conseguenze dei modelli di integrazione, esaminati come termini di un’endiadi, non trattabili alla stregua di una visione atomistica, ma inscindibilmente e indefettibilmente legati.
Difatti, per cogliere il tasso di tollerabilità dei mezzi posti in campo dalle istituzioni federali e sovranazionali, si deve muovere dal fine sotteso alla loro attivazione; viceversa, per discorrere con profitto – e in termini concreti – delle ragioni che orientano verso i processi di integrazione, non possono esser trascurati i mezzi che giustificherebbero il perseguimento di quel fine.
Il seme dell’integrazione, dell’ormai sdoganato culto degli ordinamenti multilevel, è senz’altro rappresentato dalla necessità di colmare i vuoti di tutela nelle istanze soggettive, di fissare livelli di garanzia non eludibili da qualsivoglia livello di governo. In altre parole, alla base dei federalizing processes risiede il nobile intento di elevare non il centro di decisione politica, quanto piuttosto lo standard delle tutele.  
Sebbene non mi appaia come pienamente condivisibile la teoria del maximum standard invalsa nella più autorevole dottrina e in consolidati filoni giurisprudenziali come criterio esegetico su cui appuntare la risoluzione di eventuali antinomie tra diversi livelli di tutela dei diritti, è innegabile che la ratio sottesa ai federalizing processes debba esser perseguita senza tentennamenti. Questo anche – e oserei dire soprattutto – sul versante del diritto costituzionale.
Del resto, a dispetto di alcune teorie basate sull’enfatizzazione della concezione monolitica della sovranità e sulla ‘separazione dei poteri’ tra diritto costituzionale e diritto europeo, l’oggetto del diritto costituzionale – per richiamare il pensiero di Paolo Carrozza – è l’integrazione e il costituzionalismo è l’insieme delle tecniche di integrazione e di razionalizzazione del potere. Così integrazione e federalismo corrono insieme, divengono twin concepts. Perseguire l’integrazione non significa quindi spogliare (o depotenziare) gli ordinamenti costituzionali: significa, piuttosto, accrescerne il peso specifico.
È proprio per questo, però, che mi sembra debba ravvisarsi l’esigenza di incanalare verso la costituzionalizzazione ogni processo di federalizzazione. È qui che torna in gioco il tema degli strumenti attraverso i quali percorrere il fine. All’empasse causata dai cortocircuiti istituzionali, rappresentativi e legislativi la risposta che si è data è quella dell’attivismo giudiziario.  Un fenomeno che si rintraccia ormai ad ogni livello: emerge nei più recenti approdi della Corte EDU, sempre protesa ad accrescere la portata della Convenzione ben oltre il dato letterale; lo si nota nitidamente nei tentativi – mai fino in fondo conseguiti – della Corte di Giustizia dell’UE volti a estendere l’oggetto dell’integrazione europea; si scorge, ancor più da vicino, nelle tendenze centripete delle Corti costituzionali, rinvenibili nel rapporto dialogico sia con le Corti europee, sia con i legislatori nazionali. Lo judicial activism è quindi progressivamente diventato il fulcro della produzione dei diritti e del diritto. Si produce, in via giurisprudenziale, diritto per meglio garantire un diritto.
Tuttavia, l’affermazione del mezzo giurisdizionale per addivenire all’integrazione difficilmente riesce a celare – e, anzi, probabilmente smaschera – il difetto di fondo: la necessità di imporre l’integrazione. Imporla perché il tessuto sociale non riesce a trovare nei canonici circuiti rappresentativi le giuste risposte; oppure perché la sede legislativa non è più idonea ad accrescere l’impianto valoriale che dovrebbe permeare di sé ciascun ordinamento. Se l’integrazione per via giurisdizionale risulta in determinati frangenti come doverosa e virtuosa, come ultimo baluardo per la garanzia dei diritti, d’altra parte essa rischia di sgretolarsi, specie se non ha alla base le fondamenta stabili delle ripartizioni competenziali. Ecco allora che l’attivismo giudiziario può assurgere ad indefettibile argine per scongiurare derive anti-democratiche, ma difficilmente può farsi motore di processi di integrazione.
Queste conclusioni parrebbero suffragate dai tre casi esposti nel panel, legati – a ben vedere – da un comun denominatore: in nessuna circostanza l’intervento delle Corti ha condotto ad un reale inspessimento dei diritti. La Corte EDU in sede di parere ex Protocollo 16 e la CGUE nei limiti delle proprie attribuzioni riescono a rappresentare uno stimolo – o poco più – per i legislatori nazionali, unici veri ‘responsabili’ dell’accrescimento delle tutele per l’omogenitorialità. Le politiche monetarie delle istituzioni dell’UE difficilmente possono penetrare negli ordinamenti interni senza la reale condivisione a monte, con il rischio – materializzatosi in Germania – di clashes tra Corti fondati sull’ultra vires review. La Corte costituzionale bosniaca non ha potuto risolvere le tensioni insite in processi di integrazione che non hanno avuto come presupposto il consolidamento di un unico e multietnico demos.
Affinché i federalizing process conducano alla crescita valoriale degli ordinamenti è necessario che la logica sussidiaria tra i soggetti istituzionali coinvolti non venga intaccata, altrimenti il rischio è che si vada avanti a sfide di actiones finium regundorum tra Corti (o tra gli stessi livelli di governo).
Resta sempre la sussidiarietà il perno per la costituzionalizzazione dell’integrazione. Difficilmente ci sarà spazio per l’integrazione se il legislatore e gli attori istituzionali non precederanno gli interventi delle Corti custodi dei diritti.



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