Nell’ultimo anno, la crisi sanitaria ha costretto l’Unione europea e gli Stati membri a rivedere le proprie priorità. Tuttavia, proprio per la straordinaria fragilità del momento attuale, un’altra crisi di rilevanza centrale – quella dello Stato di diritto – non ha potuto essere dimenticata. Di recente, le difficoltà che l’Unione europea incontra nell’assicurare il rispetto dei propri valori fondamentali sono tornate a occupare la scena. In particolare, ciò è accaduto con l’adozione, il 10 giugno scorso, di una risoluzione con cui il Parlamento europeo ha determinato, con netta decisione, la propria posizione sull’applicazione del “regolamento condizionalità”, ossia quello strumento (adottato lo scorso 16 dicembre come regolamento 2020/2092 del Parlamento europeo e del Consiglio) con cui si tenta di vincolare l’erogazione dei fondi dell’Unione al rispetto, da parte degli Stati membri, del principio dello Stato di diritto.
Non pare questa la sede adatta per delineare con precisione origini e struttura di tale strumento (sull'argomento, F. Casolari su questo blog; per un ulteriore commento, E. Cannizzaro). Per ciò che qui rileva, basti ricordare che l’adozione del regolamento è stata preceduta dalle conclusioni del Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2020, con le quali si sono fortemente limitati gli effetti giuridici del regolamento stesso. In particolare, l’effettiva attivazione del nuovo strumento (rectius: la proposizione di misure a norma del regolamento) viene subordinata all’adozione, da parte della Commissione, di linee guida «in close consultation with the Member States» e al rigido legame con la tutela degli interessi finanziari (e di nessun altro tipo, si legga tra le righe) dell’Unione. Non solo: secondo le conclusioni appena citate, le stesse linee guida non potranno, a loro volta, essere adottate dalla Commissione prima che la Corte di giustizia si sia pronunciata su “eventuali” ricorsi in annullamento proposti, dagli Stati membri, avverso il regolamento 2020/2092 (ricorsi che Ungheria e Polonia hanno depositato lo scorso 11 marzo e che risultano, ad oggi, ancora pendenti). A seguito di questo intervento ex machina del Consiglio europeo, la Commissione è apparsa piuttosto restia nell’implementazione del meccanismo di condizionalità che, entrato in vigore il 1° gennaio 2021, consentirebbe di giungere fino all’adozione, da parte del Consiglio, di misure di sospensione o congelamento dei fondi dell’Unione nei confronti dello Stato membro ritenuto responsabile di una violazione dello Stato di diritto. Proprio in questo percorso si innesta la risoluzione del 10 giugno del Parlamento europeo, che (complice, forse, anche il ritiro dal PPE di Fidesz, il partito di Viktor Orbán) sembra volersi appropriare di un ruolo centrale nella lotta alla rule of law crisis.
Nella risoluzione, il Parlamento considera anzitutto come il regolamento 2020/2092 sia un atto a tutti gli effetti vigente e applicabile, senza alcun bisogno di ulteriori interventi da parte della Commissione o degli Stati membri (considerando D-F; punto 1). In aggiunta, l’assemblea ricorda la propria precedente risoluzione del 25 marzo 2021, con cui si era richiesto alla Commissione di attivarsi a norma del “regolamento condizionalità” entro il 1° giugno scorso (punto 11). All’esito di siffatte considerazioni, il Parlamento mostra di ritenere che il proprio intervento dello scorso marzo e il mancato rispetto del termine assegnato da parte della Commissione costituiscano già basi sufficienti per procedere con un ricorso in carenza avverso il collegio di Palazzo Berlaymont (punto 11). Il presidente Sassoli viene quindi incaricato, ove l’inerzia della Commissione dovesse rimanere inalterata, di costituire formalmente in mora quest’ultima entro un termine massimo di due settimane, intimandole di «adempiere agli obblighi previsti» dal regolamento 2020/2092 (punto 12).
Così ricostruita la posizione del Parlamento, si impongono alcune ulteriori considerazioni che permettano di delinearne la portata effettiva.
La risoluzione del 10 giugno, a parere di chi scrive, può essere accolta positivamente almeno per la chiarezza e la perentorietà delle posizioni espresse. Tanto nel riconoscere la gravità delle derive illiberali emerse in alcuni Stati membri, quanto nell’indirizzare dei (non troppo) velati j’accuse alle carenze delle altre istituzioni dell’Unione, il Parlamento sembra aver centrato l’obiettivo – minimo, si potrebbe ragionevolmente obiettare – di evidenziare le disfunzioni nell’azione “comunitaria” in difesa dello Stato di diritto. Ciò, soprattutto, con esplicito riferimento al procedimento ex art. 7 TUE del quale, a fronte della sua attivazione nei confronti di Polonia e Ungheria, si criticano l’esagerata lentezza e l’inefficienza dovuta all’assenza di una comune volontà politica (considerando C-D; punto 3 e punto 5).
Dal medesimo punto di vista deve essere valutata la scelta di un’eventuale azione in carenza. È certamente condivisibile che, come parte della dottrina sostiene, siffatto ricorso abbia poche chanches di ottenere un concreto successo (ossia di forzare l’attivazione del meccanismo di condizionalità), soprattutto per l’estrema reticenza del regolamento 2020/2092 nel fissare un obbligo di attivazione giuridicamente sanzionabile in capo alla Commissione (v., in questo senso, M. Chamon, A Hollow Threat, in Verfassungsblog, 16 giugno 2021). La conclusione che si trae da questa premessa – ossia che l’azione in carenza sarebbe uno strumento inutile in tale situazione e che, invece, ben si potrebbe sfruttare lo strumento della mozione di censura (collettiva o individuale) – non convince del tutto. Anzitutto, anche in caso di insuccesso del ricorso ex art. 265 TFUE, la Corte di giustizia avrebbe la possibilità di pronunciarsi sull’inerzia di istituzioni e Stati membri nella tutela della rule of law, anche soltanto a mezzo di un obiter dictum; possibilità tanto più rilevante se si considera l’estrema sensibilità che i giudici di Lussemburgo hanno sviluppato, negli ultimi anni, per questo genere di tematiche. Inoltre, nel valutare l’opzione della censura (che pure il Parlamento ha vagamente prospettato nella risoluzione del 10 giugno, v. considerando G e punto 2), è necessario usare grande cautela. Se è infatti vero che siffatta mozione rappresenta una soluzione politica a un problema politico (per parafrasare M. Chamon, op. cit.), è proprio sul piano politico che essa potrebbe produrre conseguenze controproducenti e in parte incontrollabili. In un momento delicato come quello attuale, in cui l’Unione si trova ad affrontare sfide di portata tale da incidere sull’effettiva prosecuzione del processo di integrazione europea, non è scontato che aprire una crisi istituzionale sia la scelta migliore, né quella più giustificabile dinanzi ai cittadini dell’Unione. In effetti, se valutata secondo questi canoni, la “via legalista” del ricorso in carenza potrebbe rappresentare un discreto compromesso: le conseguenze politiche più dirompenti e pericolose sarebbero senz’altro scongiurate, conservando però una certa capacità di esercitare pressione (politica e giuridica) sulla Commissione.
Va riconosciuto, ad ogni modo, che quest’ultima verrebbe a trovarsi sotto un delicato “fuoco incrociato” istituzionale. Da un lato, il Consiglio europeo cerca di ridurre al minimo gli effetti applicativi del regolamento, a mezzo di conclusioni che, ove non rispettate, potrebbero essere fatte valere come vincolanti. Dall’altro lato, il Parlamento europeo tenta, invece, di forzare l’applicazione del meccanismo di condizionalità attraverso una risoluzione che, paventando un probabile ricorso in carenza, sembra intimare alla Commissione di adottare le proprie linee guida ben prima della definizione, da parte della Corte di giustizia, dei ricorsi in annullamento introdotti da Ungheria e Polonia (e, quindi, sembra intimarle di violare volontariamente le conclusioni del Consiglio europeo). In definitiva, se è vero che il regolamento 2020/2092 garantisce alla Commissione un ampio margine di discrezionalità nella valutazione dei presupposti e nell’esercizio della propria azione di controllo (e sanzione), sarà molto interessante osservare come il collegio di Bruxelles farà uso di tale discrezionalità per districarsi in una situazione da cui, in un senso o in quello opposto, potrebbero derivare conseguenze giuridiche di non scarsa problematicità.