Il c.d. “blocco” dei licenziamenti per ragioni organizzative e/o economiche è stato introdotto a metà marzo 2020, per un breve intervallo di tempo, e poi ripetutamente prorogato. A fronte di questa misura, tuttavia, l’ordinamento ha offerto pressoché a tutti i datori la possibilità di sospendere i rapporti di lavoro, con intervento di strumenti di sostegno del reddito a beneficio dei prestatori, a carico della spesa pubblica. Anche senza prevedere selettività alcuna, perché sono stati beneficiati, come registrato dalle stesse norme, pure «datori di lavoro che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato».
Considerati gli ulteriori non irrilevanti sostegni alle imprese, non sembra scorretto affermare che l’ordinamento, a fronte della pandemia, abbia realizzato un componimento nel complesso equilibrato tra istanze delle prime e dei prestatori, entrambe peraltro di rilievo costituzionale. Per le numerosissime imprese in grande difficoltà, in effetti, non è in tal modo stato il costo del lavoro (piuttosto di altri elementi necessari all’organizzazione produttiva!) a rappresentare un problema. La scelta effettuata, d’altra parte, ha tutelato il lavoro di moltissimi prestatori a tempo indeterminato. Meno, invece, il loro trattamento economico, perché il reddito garantito spesso è stato molto inferiore alla retribuzione: ciò risultando particolarmente stridente per i fruitori, dipendenti di imprese in bonis!
Assai meno efficace, invece, l’ordinamento è sicuramente stato per quel che riguarda la tutela dei lavoratori precari: anche e soprattutto dell’ampia fascia di lavoratori “invisibili”, perché irregolari, assai diffusi in Italia, di cui ha provato ad occuparsi il c.d. reddito di garanzia.
In tale contesto si è giunti al d.l. n. 41/2021 dell’Esecutivo Draghi, che ha prorogato fino al 30 giugno il “blocco” dei licenziamenti, per le imprese fruitrici della cassa integrazione ordinaria “speciale” (con causale speciale covid); fino al 31 ottobre invece, per la prima volta distinguendosi in relazione allo strumento di sostegno del reddito utilizzabile, quanto alle altre imprese (di settori produttivi diversi da quelli beneficiari della cassa; anche piccole e piccolissime).
È seguito un aspro dibattitto, ad esito del quale il blocco fino al 31 ottobre è stato prorogato anche per i datori di lavoro, beneficiari della cassa, del solo settore tessile e pelli. Mentre le principali organizzazioni sindacali dei lavoratori e datori, unitamente al Ministro del lavoro ed al Presidente del Consigli dei Ministri, hanno sottoscritto una “Presa d’Atto”, secondo cui «le parti sociali alla luce della soluzione proposta dal Governo, si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente ed il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione del rapporto di lavoro».
In tal modo, è stata fortemente depotenziata la tutela dei lavoratori a tempo indeterminato delle aziende in difficoltà, presenti ancora in grande numero, per cui il rischio del licenziamento è divenuto molto elevato. Nonostante – si teme – la menzionata “Presa d’Atto”, non irrilevante dal punto di vista politico-sindacale ma certo lontana dall’introdurre vincoli giuridici di sorta. Ciò, rischiando di generare ulteriori e forti elementi di tensione nel tessuto sociale, che a questo punto solo una adeguata e diffusa ripresa economica si spera riuscirà a contenere. Contemporaneamente sono stati mantenuti (o incrementati) gli aiuti “straordinari” alle imprese: ed è, pertanto, venuto meno l’equilibrio di cui si diceva.
L’Esecutivo sembra, così, essersi di fatto adeguato ai rilievi avanzati in un documento della Commissione UE (“Commission staff working document”) del 2 giugno 2021, concernente l’Italia. Il testo - che si occupa di “Assessment of Macroeconomics Imbalances” nonché, come “thematic issues”, di “Public Debt”, “Financial Sector” e “Labour Market” - dedica in quest’ultima sezione osservazioni critiche proprio al “blocco” dei licenziamenti.
La Commissione sottolinea (in un testo in lingua inglese ora liberamente tradotto) che l’Italia, unico Paese membro ad avere adottato una misura simile, avvantaggi in questo modo gli insiders, prestatori a tempo indeterminato, a detrimento dei lavoratori temporanei e stagionali. Aggiungendo inoltre che, considerato quanto accaduto nel mercato del lavoro di altri Paesi, il blocco dei licenziamenti non è stato particolarmente efficace e si è rivelato anzi ridondante, in considerazione dell’uso esteso di forme (“schemes”) di mantenimento del posto di lavoro. Infatti – viene precisato – Paesi dove operano forme di sostegno del reddito simili a quelle presenti in Italia, a partire da Germania e Francia, sono riusciti a contenere gli impatti negativi, senza ricorrere a misure così restrittive come un divieto assoluto di licenziamento. Quest’ultimo può anche essere controproducente – si conclude – tanto più quanto più permane, in quanto ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro a livello aziendale.
Pare in effetti nell’occasione ri-emergere il linguaggio – e dietro di esso l’impostazione – tratto dalla c.d. analisi economica del diritto, divenuti egemoni, fino a pochi anni addietro, assieme al punto di vista neo-liberista, anche nelle politiche della UE. Da cui poi sono derivate, per quel che riguarda il diritto del lavoro, la centralità della c.d. flexicurity, negli indirizzi dell’UE; la c.d. riforma Fornero del 2012 e, soprattutto, il c.d. Job’s Act del 2015 in Italia.
Ebbene – nei limiti estremamente sintetici consentiti da questo approfondimento – la contrapposizione tra lavoratori c.d. insiders ed outsiders, vero e proprio “tormentone” nazionale trentennale, è tutt’altro che ideologicamente neutrale, nel momento in cui elimina completamente dallo scenario politico e sociale la dialettica tra lavoro ed impresa, sostituendola appunto con quella tra prestatori di lavoro. Che peraltro esiste da sempre, nel lento e faticoso percorso volto a garantire un generale miglioramento delle condizioni di lavoro; e da sempre è strumentalizzata dalle imprese, all’interno del conflitto sociale che ha accompagnato tale tentativo (a partire dai prestatori che a fine Ottocento ed inizio novecento subentravano agli scioperanti licenziati!).
L’idea contemporanea, secondo cui la riduzione della tutela degli insiders incrementerebbe quella degli outsiders e comunque garantirebbe diffusi benefici alle società, si è d’altra parte prevedibilmente rivelata del tutto fallimentare. Dopo decenni di provvedimenti nelle direzioni indicate, va registrato il netto indebolimento delle condizioni di lavoro sia di insiders che di outsiders, a partire dalla precarietà dei rapporti e dalle retribuzioni. Senza positivi effetti sulla occupazione. Tantomeno in Italia sulla produttività e competitività delle imprese. Per non parlare di come lo squilibrio sociale così generato abbia inciso sui sistemi politici e sulla fortuna di movimenti nazionalisti e xenofobi…
Applicare, però, questo schema di analisi nel contesto drammatico generato dalla pandemia sembra davvero raggiungere il limite della plausibilità e credibilità. Perché non è stata ora certamente tolta alcuna occasione di lavoro agli outsiders, posto che nessuno avrebbe lavorato al posto degli insiders, se questi fossero stati licenziati, come l’ordinamento nazionale in generale consente!
Che poi quest’ultimo risulti nel complesso lacunoso, frammentato e sperequato, inidoneo sovente a garantire adeguate protezioni ai prestatori, in particolare sul piano della effettività, sia nel rapporto che nel mercato, costituisce un dato di fatto, da molto tempo esistente. Certo non modificato in meglio dalle più recenti menzionate riforme.
Ma, proprio per queste ragioni, nemmeno si comprende il paragone avanzato con la vicenda di Francia e Germania. Specie dopo le numerose e dettagliate pagine del documento della Commissione che precedono, riguardanti noti punti deboli dell’Italia e non certo di Francia e Germania! Dove, peraltro, secondo quanto viene pure indicato dalla Commissione, sarebbero stati perseguiti analoghi, se non identici, obiettivi. Sempre di tutela degli insiders dunque!
La frase finale, in definitiva, è rivelatrice. Dietro di essa torna ad apparire la vecchia idea di una “impresa sovrana”, da lasciare più libera possibile di agire, poiché da ciò deriverebbero sicuri ed estesi benefici per tutti. Non è così, tuttavia, come oramai più decenni hanno mostrato. Al contrario sono necessari limiti ed indirizzi, se si vuol provare ad evitare catastrofi sociali ed ambientali. Almeno per le imprese che del pubblico non diffidano, quando si tratta di attingere a benefici. Questo è accaduto con le più recenti politiche e decisioni dell’UE come di molti dei Paesi componenti, sia pure costretti dalla pandemia. La Commissione lascia tuttavia capire quanto sia forte la nostalgia, in sede tecnica e politica, per i tempi che l’hanno preceduta.