È sempre interessante misurare il rating reputazionale dello Stato attraverso il rapporto che il popolo sovrano intrattiene con la multiforme espressività del potere pubblico, dalla dimensione centrale a quelle locali. Tra i sensori che raccontano di questo rapporto sicuramente va considerata l’indagine condotta periodicamente dalla Commissione Europea, in Italia rielaborata per quadri sintetici dalla Confederazione Generale Italiana dell'Artigianato (CGIA) di Mestre. I dati dell’ultima rilevazione, che offrono eloquenti valutazioni svolte dai cittadini sulla qualità dei servizi offerti dagli uffici pubblici dei 27 Stati membri dell’UE, collocano l’Italia all’ultimo posto. Non meno preoccupante il quadro se si allarga l’orizzonte ai 36 paesi dell’Ocse che, secondo la ricerca Quality of Government Index svolta dall’Università di Göteborg, collocherebbe la burocrazia italiana al terz’ultimo posto in base ad indici ancora più stringenti. Del difficile rapporto degli italiani con la “prima trincea” dello Stato-apparato, la politica ha mostrato in più occasioni di avere cognizione. Non a caso, l’impresa con cui i governi nazionali si sono più frequentemente cimentati è stata quella di promuovere la metamorfosi del Moloch burocratico dalla dimensione trasfigurata del sauro arcaico a quella di un cigno moderno e friendly. Impresa che non ha fatto, tuttavia, registrare nella storia repubblicana memorabili vittorie.
Oggi siamo ad un punto di svolta ineludibile: la valutazione positiva da parte della Commissione europea del PNRR riconosce alla “Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA” un valore prioritario, sostenuto con un impegno di spesa di 11,15 miliardi di euro. Ma vi è una condizione posta all’attingimento: “no reform, no money”. Stavolta la riforma occorre farla, non solo annunciarla.
Il disegno di riforma della burocrazia italiana ha già visto due interventi significativi del governo Draghi che rappresentano, almeno negli intenti, i passaggi propedeutici ad una riforma organica: il primo è il d.l. n. 44/2021, come convertito dalla l. n. 76/2021, che all’art. 10 contiene la riforma dei concorsi pubblici in chiave di promozione delle prove digitali e del superamento del “gigantismo” delle procedure; il secondo è il d.l. n. 80/2021, recante “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia”, che rende visibile il complessivo disegno riformatore.
Si tratta di una scelta di campo del Governo verso la digitalizzazione della PA che prepara, insieme con la transizione ecologica, una transizione burocratica verso una dimensione moderna, capace di dialogare con le tecnologie digitali e con tutte le generazioni degli italiani: dunque, uno spazio accogliente e non vessatorio, in grado di offrire il dovuto e in tempi veloci. La prima novità è l’utilizzo del digitale nelle procedure concorsuali, per snellire i tempi necessari per la copertura dei posti nell’Amministrazione, oggi valutati mediamente in quattro anni. I dipendenti dello Stato sono 3 milioni e 200 mila, con una età media che supera i 50 anni, e una massa di 490 mila addetti deve essere assunta, tra i posti già vacanti e quelli che lo saranno nel prossimo triennio. Un elemento rilevante che sembra caratterizzare il nuovo corso è rappresentato dall’apertura alla concertazione con le rappresentanze sindacali, celebrata con il “Patto tra Governo e sindacati” per il pubblico impiego, e alla collaborazione con università, ordini professionali e settore privato. La priorità resta quella dello svecchiamento, con l’inserimento di una nuova generazione di civil servant, utilizzando procedure innovative ispirate ai principi della velocità delle selezioni e dell’iter di assunzione del personale. Sembra emergere una determinata visione della burocrazia: da un lato, per l’attenzione alle giovani generazioni (in questo senso va l’attivazione di contratti di formazione-lavoro per i giovani diplomati in età compresa tra i 18 e i 29 anni), dall’altro, per la valorizzazione delle risorse umane già operanti nell’amministrazione dello Stato (si veda la nuova area d’inquadramento riservata al personale dotato di alta specializzazione), con una prospettiva sistemica. Utile appare anche la nuova attenzione rivolta agli strumenti di formazione, rappresentati dal Formez PA e della Scuola Nazionale della Pubblica Amministrazione, rafforzate nella governance e nella mission.
Una seconda parte del d.l. n. 80/2021 interviene a regolare le procedure che garantiscono l’operatività dell’ufficio del processo previsto nel Piano, stabilendo misure urgenti destinate al comparto della giustizia ordinaria e amministrativa, che prevedono l’assunzione di 16500 persone tra laureati in giurisprudenza, economia e Scienze Politiche. Anche in questo caso si tratta di contratti a tempo determinato: tuttavia, il servizio prestato con merito nel corso del contratto rappresenterà titolo utile per l’accesso ai ruoli previsti dalla magistratura onoraria e consentirà di accedere ai concorsi nella magistratura ordinaria, nell’avvocatura e nel notariato, in alternativa ad un anno di pratica negli studi legali e notarili.

Un recente lavoro di Edoardo Ongaro (Filosofia e governance pubblica, 2021) propone un approccio laterale, utile ad approfondire lo studio della PA attraverso l’analisi di come “il pensiero filosofico possa essere la chiave per un vero e proprio ripensamento della governance pubblica e della pubblica amministrazione italiana”. L’autore parte dalla considerazione che l’analisi scientifica svolta con l’ausilio delle discipline solitamente adoperate per lo studio della PA, come le scienze dell’amministrazione e gli approfondimenti proposti attraverso la governance e il management pubblico, denunci la presenza di “residui filosofici irriducibili”. Appare convincente il rinvio alla filosofia politica per comprendere il rapporto tra Stato e cittadini, o il ricorso ai concetti filosofici universali sulla natura e la libertà umana quando l’oggetto del dibattito è la discrezionalità del burocrate.
È da condividersi, allora, l’idea che, per un’opera di riforma della PA, diventi utile il rispecchiamento in uno statuto filosofico capace di offrire gli orizzonti vasti di un disegno unitario in grado di rappresentare la base di una rifondazione dello Stato-apparato, abbandonando interventi segmentali. L’Europa sembra seguire una visione non solo perché considera la riforma della PA una delle principali richieste della Commissione europea nell’ambito delle Country Specific Recommendations, ma anche perché ne disegna, appunto, un percepibile profilo filosofico, orientando verso un massivo investimento nelle tecnologie digitali.
Resta da domandarsi se il progetto di riforma della PA adottato dal governo appaia assonante con l’impianto europeo e, soprattutto, se la rivoluzione digitale della Next Generation Eu potrà poggiare, oltre che su strutture normative coerenti ed efficaci, anche su un’adeguata opera di riprogettazione dei modelli organizzativi in grado di assorbire l’impatto della riforma in modo utile per il cittadino. Al netto di alcune critiche che pure sono state poste al progetto di riforma, resta la considerazione, inoppugnabile, del pieno accoglimento da parte della Commissione Europea ⎼ che pone, giova ricordarlo, la riforma della PA, del fisco e della giustizia tra le priorità ⎼ del PNRR, sottolineato con enfasi dalla visita a Roma del 24 giugno scorso della presidente Ursula von der Leyen. Dunque, la riforma della PA delineata dal Governo Draghi rende visibile la sua filosofia: fu lo stesso Ministro Brunetta, nel corso dell’audizione dinanzi alle Commissioni Affari Costituzionali e Lavoro della Camera e del Senato del 9 marzo scorso, a dichiarare quale fosse la visione a cui il Governo intende ispirarsi, evocando digitalizzazione, accesso, buona amministrazione e capitale umano. La novità di questa impostazione rispetto ai numerosi interventi del passato sta nel ribaltamento della logica che ispirava le riforme, sostenute da visioni ora partecipative ora manageriali, comunque parziali. Visioni che non si facevano carico del problema centrale della PA legato alla capacità di legittimarsi pienamente al cospetto del cittadino-utente. Resta da vedere se il metodo concertativo con le parti sociali potrà continuare ad assistere il percorso della riforma, considerata la rilevanza fondamentale del movimento sindacale nelle dinamiche del pubblico impiego. E resta anche da verificare come i principi generali riusciranno a calarsi nei diversi comparti della PA: si pensi, ad esempio, alla complessità del mondo della scuola. La strada probabilmente avrà snodi sinusoidali, in cui i rettifili non saranno la parte principale del percorso. Ma le condizioni per un cammino ispirato dal chiarore di una visione oggi si rendono possibili, offrendo anche un contenuto alla parola resilienza, che si va consumando forse inutilmente in questa complicata stagione.