Lo scorso 16 giugno la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha posto la parola “fine” alla controversia che ha coinvolto l’ormai ex avvocato generale Eleanor Sharpston e determinato, dopo quindici anni di servizio presso la Corte, la cessazione anticipata del suo mandato.
Punto d’avvio della vicenda è stato il compimento della Brexit. In vista dell’entrata in vigore dell’accordo di recesso, gli Stati membri (ad eccezione di quello recedente) avevano adottato, il 29 gennaio 2020, una dichiarazione nella quale – in linea con quanto già previsto, seppur non expressis verbis, al considerando n. 8 e agli artt. 7 e 101 dell’accordo stesso – si «nota[va]» che i mandati di tutti i membri delle istituzioni “comunitarie”, nominati «in virtù dell’adesione del Regno Unito all’Unione», sarebbero cessati automaticamente nel momento dell’entrata in vigore del withdrawal agreement; conseguentemente, i rappresentanti degli Stati membri prendevano atto del fatto che l’avvocato generale britannico Eleanor Sharpston, il cui mandato sarebbe giunto a naturale scadenza ad ottobre 2021, avrebbe terminato il proprio servizio anticipatamente, il 1° febbraio 2020. A questa dichiarazione (e all’attestazione, da parte del presidente della CGUE, della vacanza di un posto da avvocato generale e della necessità della nomina di un sostituto) era seguito, il 6 ottobre 2020, il giuramento del nuovo avvocato generale Athanasios Rantos. Alla Grecia, che ne aveva proposto la nomina, sarebbe spettato (e tutt’oggi spetta) ricoprire il posto vacante fino alla scadenza naturale del mandato e, di seguito, proporre una nuova nomina per il seguente mandato di sei anni.
Ritenendo di aver subito un ingiusto pregiudizio, Eleanor Sharpston ha però proposto ricorsi in annullamento avverso tutti questi atti (ricorsi le cui sintesi sono disponibili qui, qui e qui), sollevando questioni di ampia portata per il sistema istituzionale dell’Unione. Secondo l’ex avvocato generale, infatti, gli Stati membri avrebbero operato un’indebita intrusione nelle prerogative della Corte, unica istituzione cui spetta la decisione di rimuovere dal servizio un proprio membro (a norma degli artt. 5-6 dello Statuto), compromettendo l’indipendenza del giudice dell’Unione.
Su questi ricorsi si è pronunciato, dapprima con ordinanza cautelare del 4 settembre 2020 (richiesta da Sharpston per sospendere l’efficacia dell’atto di nomina del nuovo avvocato generale greco), il Tribunale, mostrando qualche lieve apertura alle ragioni della ricorrente ma subendo, appena una settimana dopo, una dura sconfessione da parte della vicepresidente della Corte, adita dai convenuti in qualità di giudice cautelare dell’impugnazione. Il 6 ottobre 2020, il Tribunale è quindi tornato a pronunciarsi sui ricorsi principali, archiviandoli con tre ordinanze di manifesta irricevibilità (qui, qui e qui le pronunce); valutazioni che, in ultimo, sono state confermate dalla Corte di giustizia, in qualità di giudice del pourvoi, con due ordinanze (qui e qui i testi) del 16 giugno 2021.
Va segnalato, anzitutto, che le pronunce del giudice dell’Unione non si sono mai addentrate nell’esame delle questioni di merito, rimanendo piuttosto confinate in tema di (ir)ricevibilità dei ricorsi. In effetti, tanto il Tribunale quanto, soprattutto, la Corte hanno ritenuto che gli atti la cui legittimità era contestata, essendo riconducibili agli Stati membri e non alle istituzioni, organi o agenzie dell’Unione, non potessero essere soggetti ad alcun controllo giurisdizionale ex art. 263 TFUE. La manifesta irricevibilità dei ricorsi in esame, da un certo punto di vista, non può dirsi una sorpresa, dal momento che tali pronunce si inseriscono in una giurisprudenza piuttosto consolidata (tra cui possono ricordarsi, tra gli altri, il caso Ledra Advertising e il caso NF), che ha spesso escluso la sindacabilità di determinati atti in quanto adottati dai rappresentanti degli Stati membri – anche ove si trattasse delle medesime persone che, fisicamente, componevano una delle istituzioni dell’Unione – senza riguardo al fatto che gli effetti di tali atti incidessero, in qualche modo, sull’ordinamento “comunitario”. Trattasi di un orientamento che può sembrare eccessivamente rigido, ma che è indubbiamente rispettoso del dato normativo attuale e di cui sembra difficile, almeno in tempi brevi, prefigurare un revirement.
Per quanto attiene al merito della vicenda, la (pur esigua) dottrina si è allineata, nella maggior parte dei casi, alle posizioni della ricorrente, ritenendo quindi che l’intervento degli Stati membri abbia realizzato una grossolana intrusione nelle prerogative della CGUE, nonché una profonda lesione della sua indipendenza (così soprattutto i commentatori internazionali: v. spec. D. Kochenov, G. Butler; L. Pech; la dottrina italiana, invece, si è dimostrata più cauta nel prendere posizione espressamente a favore della ricorrente: v. G. Tesauro, A. Circolo). Ciò sulla base dell’assunto che la figura dell’avvocato generale debba, per poter godere delle medesime garanzie di imparzialità e indipendenza previste a favore dei giudici (artt. 2-8 dello Statuto), essere del tutto privo di legami con lo Stato membro che ne ha proposto la nomina: le sorti del mandato di Eleanor Sharpston, quindi, sarebbero dovute rimanere del tutto indifferenti al recesso del Regno Unito, essendo la stessa ricorrente avvocato generale non perché cittadina britannica, ma perché in possesso dei requisiti previsti dall’art. 253 TFUE.
Se è indubitabilmente vero che, quanto a regime di guarentigie, lo Statuto sia volto a parificare giudici e avvocati generali e che esista, ai già menzionati artt. 5-6, una procedura ben precisa attraverso cui la Corte può rimuovere un proprio membro, è altrettanto vero che tali riferimenti normativi devono confrontarsi, da un lato, con il funzionamento concreto del sistema e, dall’altro, con l’eccezionalità delle circostanze del caso di specie.
Per quanto riguarda la nomina degli avvocati generali, infatti, la prassi ha da sempre mostrato di orientarsi verso un sistema per cui ogni Stato membro propone, de facto, la candidatura di un proprio cittadino. Diverse dichiarazioni congiunte degli Stati membri (tra cui, soprattutto, la nota “dichiarazione 38”) hanno infatti sollevato il tema della nazionalità, che sembra particolarmente rilevante per quegli Stati – compreso, fino al suo recesso, il Regno Unito – titolari di un posto permanente da avvocato generale presso la Corte di giustizia. Non sembra, insomma, potersi escludere l’esistenza di qualsivoglia legame, anche solo formale, tra un avvocato generale e lo Stato di cui quest’ultimo è cittadino.
Conseguenza apparentemente automatica di quanto appena esposto è che, con l’avvento della Brexit, il posto permanente assegnato al Regno Unito non avrebbe più avuto alcuna logica giustificazione (come sostiene anche S. Lashyn). Coerentemente, sembra potersi affermare che sia stato l’ufficio stesso, occupato in quel momento da Eleanor Sharpston (e non il suo mandato personale), a essere colpito da sopravvenuta inesistenza a causa delle circostanze eccezionali determinate dal recesso di uno Stato membro: una fattispecie che, così analizzata, pare ridimensionare di molto il rischio di una lesione all’indipendenza della CGUE da parte degli Stati membri. Vero è che, nell’ambito della c.d. rule of law crisis – che da anni, ormai, imperversa soprattutto in alcuni Stati membri – un episodio come quello in oggetto (legato, tra l’altro, proprio al principio di indipendenza dei giudici) rischia di offrire un pericoloso “gancio” a governi nazionali che vogliano sottrarsi al rispetto dello Stato di diritto. Tuttavia, sembra anche il caso di ricordare come l’indipendenza del giudice e la stessa rule of law siano principi che assumono connotazioni fortemente diverse in base all’ordinamento in cui sono calati e che, tantomeno, posso essere oggetto di paragoni tra il livello nazionale e quello, del tutto peculiare, dell’Unione europea.
Pur nella convinzione di quanto sostenuto finora, restano alcune perplessità in merito alle modalità con cui l’intera questione è stata gestita. Dalle ordinanze del giudice di prime cure, sorprendentemente celeri nell’appiattirsi sulle osservazioni espresse (pur in sede cautelare, inaudita altera parte) dalla vicepresidente De Lapuerta, alle pronunce quasi “lapidarie” della Corte in qualità di giudice del pourvoi, passando per il giuramento del nuovo avvocato generale greco, prestato (con ben poca pubblicità) appena poche ore dopo le ordinanze di manifesta irricevibilità del Tribunale: complessivamente, il trattamento riservato ai ricorsi in oggetto non è parso congruo al rilievo, potenzialmente ampio, della vicenda. Se l’azione degli Stati membri e le valutazioni del giudice del Kirchberg non sembrano potersi dire illegittime, è ben possibile esporre a critica la scarsa accortezza avuta nei confronti di un momento così delicato per un’Unione europea che, ricordando la sentenza Les Verts, voglia davvero definirsi «comunità di diritto».