Tempo di crisi quello odierno per lo Stato di diritto in Europa e tempo di crisi, per ciò stesso, anche per la Costituzione e lo Stato che da essa prende il nome. Un male, ahimè assai insidioso e diffusivo, ne mina le fondamenta, senza che peraltro si riesca a mettere a punto la ricetta giusta per contenerlo, se non pure per debellarlo del tutto. Si alimenta infatti di una sostanza che ha sempre esercitato un fascino ammaliante anche su persone culturalmente non sprovvedute: il nazionalismo, sovente combinato in un mix esplosivo con un populismo accattivante. Ed è bene subito avvertire che nessun Paese può dirsene immune, in particolare non lo sono quelli, come il nostro, nei quali hanno messo radici e vanno viepiù crescendo movimenti politici che di questa miscela hanno fatto la loro bandiera.
Historia magistra vitae, si legge nel De Oratore di Cicerone; purtroppo, è così solo per alcuni che hanno tratto profitto dalla lezione di un dolorosissimo passato, ma non per molti che parrebbero ignorarlo o, come che sia, rimuoverlo dal patrimonio delle loro conoscenze. Eppure, le vicende maturate negli ultimi decenni soprattutto in Ungheria e Polonia (ma anche, seppure in forme meno vistose ed inquietanti, in Bulgaria, Romania e a Malta) sono qui sotto i nostri occhi ad ammaestrarci del carattere subdolo ed insidioso del male e della sua attitudine a diffondersi e radicarsi sempre più a fondo in terreni fertili ed accoglienti (assai istruttivo al riguardo il Rule of Law Report, licenziato dalla Commissione dell’Unione europea in data 20 luglio 2021).
Non è, d’altronde, senza significato che – al di là dei tratti peculiari esibiti dai singoli contesti e delle forme parimenti peculiari del loro concreto svolgimento – se ne diano altri comuni che parrebbero ripetersi in ogni forma d’involuzione dello Stato costituzionale, fino a pervenire nella compiuta degenerazione della sua natura, non più riconoscibile alla luce dello standard elaborato al fine della sua caratterizzazione (utili indicazioni in AA.VV., Crisi dello Stato e involuzione dei processi democratici, a cura di C. Panzera - A. Rauti - C. Salazar - A. Spadaro, Editoriale Scientifica, Napoli 2020). Così, in particolare, è per l’attacco mirato all’indipendenza dei giudici (su di che, per tutti, A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, e, più di recente, V. Zagrebelsky, L’Unione europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi, in Giustizia insieme, 28 maggio 2021, spec. § 5), al “contropotere” cioè per eccellenza, il solo in grado di arginare la deriva del potere politico e, per ciò stesso, mantenere integra l’essenza stessa della Costituzione, quale mirabilmente scolpita nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, con il riferimento ivi fatto al riconoscimento dei diritti fondamentali ed alla separazione dei poteri quali basi portanti dello Stato costituzionale.
Ebbene, le vicende suddette, specie appunto quelle che hanno segnato (e segnano) la storia più recente ed il sofferto presente dell’Ungheria e della Polonia, obbligano a far luogo ad un’attenta verifica della capacità di tenuta dell’Unione europea, della sua identità ed attitudine a trasmettersi integra nel tempo, per un verso, e, per un altro verso, di categorie componenti la teoria costituzionale largamente accreditate e diffuse.
Si tratta, in primo luogo, di chiedersi se possano convivere (e, se sì, fino a quando), in seno alla stessa organizzazione sovranazionale, Paesi di tradizione liberal-democratica e Paesi appartenenti all’ambiguo genus delle “democrazie illiberali”, come è d’uso ormai chiamarle, ricorrendo ad un’etichetta nondimeno afflitta, ad opinione mia e di altri, da una contraddizione interna insanabile, e che vanno conformandosi (se già non si sono conformati…) quali delle vere e proprie “democrature” (formula, quest’ultima, coniata oltre trent’anni addietro da P. Hassner, mentre la prima è in circolazione dal 1997, a seguito di una nota riflessione di F. Zakaria; entrambe hanno attratto l’attenzione di una nutrita schiera di studiosi: indicazioni, di recente, negli studi ospitati dal fasc. 3/2020 di DPCE on line e part., ivi, con specifico riguardo ad Ungheria e Polonia, in quello di G. Delledonne, Ungheria e Polonia: punte avanzate sulle democrazie illiberali all’interno dell’Unione Europea, 16 ottobre 2020, 3999 ss.; nella stessa Rivista, v. pure, utilmente, A. Spadaro, Integrazione europea e costituzionalismo globale, 2/2021, 9 luglio 2021, spec. 2438 ss.).
Non si tratta – sia chiaro – di evocare antiche etichette, quali quelle invalse al tempo in cui l’Unione Sovietica esercitava un dominio incontrastato nell’Est europeo, con le quali anche i Paesi che ne erano satelliti si autoqualificavano come portatori di “democrazia”, anzi i soli in grado di dare voce, nel modo più genuino ed autentico, a tale valore. La storia ha infatti reso inequivoche e sicure testimonianze del fatto che il termine in parola non è, non può essere neutro, ponendosi a giustificazione di un “contenitore” talmente largo ed accogliente da dare posto persino a modelli di organizzazione politica reciprocamente incompatibili.
Il vero è che senza libertà non può esservi democrazia, così come questa non può fare a meno di quella. Ed è per ciò che lo “Stato di diritto” si fa ed incessantemente rinnova al proprio interno, restando nondimeno sempre fedele a se stesso, unicamente laddove si diano certe condizioni storico-politiche e costituzionali indefettibili, tutte nondimeno riportabili – quale più quale meno e in modo diretto ovvero indiretto – alla formula di sintesi racchiusa nell’art. 16, sopra richiamato (indicazioni al riguardo possono ora aversi da A. Festa, Lo Stato di diritto nello spazio europeo. Il ruolo dell’Unione europea e delle altre organizzazioni internazionali, Editoriale Scientifica, Napoli 2021).
A volte – va riconosciuto – si danno definizioni presenti in documenti costituzionali che parrebbero circoscrivere l’area materiale coperta dallo “Stato di diritto”, tenendola dunque separata da quella in cui si situano altri elementi propri delle “democrazie liberali” o, diciamo pure, della democrazia tout court, pur nella varietà delle sue interne articolazioni e realizzazioni storico-positive. E, tuttavia, è ormai provato che essi fanno tutt’uno, componendosi in un insieme unico ed inscindibile nelle sue parti.
Si pensi, ad es., ai valori fondanti l’Unione europea, quali elencati nell’art. 2 TUE: lo “Stato di diritto” rimane separato dal “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, … dei diritti umani”. Evidenti sono, nondimeno, le sovrapposizioni rinvenibili nel catalogo in parola (dignità, libertà, diritti umani), frutto di una studiata ed insistita riaffermazione dell’idea di Costituzione e di Stato costituzionale con sintesi efficace enunciata dai rivoluzionari francesi oltre due secoli addietro. Immaginare, poi, che possa aversi dignità senza libertà o salvaguardia dei diritti umani, e – naturalmente – viceversa, è cosa palesemente insensata, e non occorre di certo addurre qui alcun argomento a sostegno di questo rilievo.
Francamente, dunque, non si vede come possano stare assieme e fruttuosamente operare al servizio dell’uomo e dei suoi più avvertiti e diffusi bisogni – i diritti fondamentali – Paesi che ispirano la loro organizzazione ed azione al modello sinteticamente rappresentato dall’art. 16 sopra cit. e Paesi che invece quel modello hanno ormai rinnegato, discostandovisi in forme viepiù vistose ed eclatanti. È chiaro che per Ungheria e Polonia è conveniente restare nell’Unione europea (ancora G. Delledonne, cit., spec. 4015), non curandosi della contraddizione insita nella loro disomogeneità strutturale rispetto alle liberal-democrazie o democrazie tout court. Ma, lo è anche per gli altri Stati membri dell’Unione?
Qui è il punctum dolens della questione ora nuovamente discussa.
La strategia – che francamente dubito possa rivelarsi vincente – a tutt’oggi perseguita dall’Unione è di altro segno: dapprima attendista ed a tratti persino rinunciataria o tutt’al più di blanda reazione, di sicuro inadeguata davanti allo svilimento dello Stato di diritto e dei valori che ad esso fanno capo. Solo in tempi a noi vicini, si è avviata la procedura di cui all’art. 7, par. 1, TUE (nel 2017 quanto alla Polonia e l’anno successivo per l’Ungheria), senza nondimeno che se ne sia avuto il perfezionamento. Più di recente, poi, si è avuto il varo del regolamento n. 2092 del dicembre 2020 (per una prima illustrazione del quale, v., almeno, F. Casolari, Tutela dello stato di diritto e condizionalità finanziaria: much ado about nothing?, in questo blog, 19 maggio 2021, e, pure ivi, R. Torresan, “Fuoco incrociato” sulla Commissione nella rule of law crisis, 23 giugno 2021), dal quale si attendono buoni frutti, per quanto al presente non possa ancora dirsi se al meccanismo di “condizionalità finanziaria” – com’è da molti qualificato – conseguiranno risultati di non secondario rilievo.
Sta di fatto che l’Unione risulta dotata di una struttura all’interno della quale è presente un difetto di costruzione ad oggi non rimosso che ne condiziona l’azione e la linearità d’indirizzo proprio di questa. Mentre, infatti, l’ingranaggio concernente l’“entrata” di uno Stato nell’Unione si presenta rigoroso e funzionale, appare di contro essere vistosamente carente “in uscita”, laddove cioè le condizioni inizialmente prescritte per l’ingresso dovessero venire meno. A conti fatti, l’unico modo per estromettere dall’Unione Stati che non risultino più dotati dei requisiti necessari per restarvi è quello di dar vita ad un nuovo patto fondativo al quale gli Stati in parola non siano chiamati a partecipare: soluzione obiettivamente onerosa e farraginosa che, nondimeno, marcherebbe in modo vistoso, anche davanti alla opinione pubblica mondiale, il carattere sanzionatorio nei riguardi di chi si è discostato dalla retta via.
Ne danno emblematica testimonianza appunto le vicende giù maturate e le altre in corso sia in Ungheria che in Polonia. È ormai acclarato che si sia in presenza di forme peculiari espressive di un potere costituente illiberale; e da esse si ha appunto conferma di un dato di estremo interesse per la teoria costituzionale, vale a dire che l’affermazione del potere stesso non necessariamente si ha per effetto di un brusco e repentino capovolgimento dell’ordine costituzionale preesistente accompagnato dalla edificazione di un nuovo ordine nel segno di una dichiarata e vistosa discontinuità, specificamente apprezzabile in prospettiva assiologicamente orientata, avuto cioè riguardo ai valori fondamentali ai quali si ispirava il vecchio ordinamento ed ai quali si rifà invece il nuovo. La discontinuità può infatti aversi in tempi lunghi, a volte lunghissimi, a piccoli passi e con l’accumulo di plurimi atti e comportamenti, tutti riportabili ad un unitario e coerente disegno che solo nel loro insieme (e una volta riguardati ex post) si dimostrano in grado di produrre l’effetto eversivo avuto di mira. Se ne ha la difficoltà di stabilire in modo sicuro quale sia l’atto o il comportamento che, al pari della classica goccia, si dimostri in grado di far traboccare il vaso, determinando la cesura ordinamentale. Quest’ultima, a mia opinione, si è già avuta per i due Paesi sui quali qui si punta specificamente l’attenzione, diversamente dai processi politici in corso presso altri Stati che appaiono meno avanzati nella deviazione intrapresa dal solco entro cui si svolgono le più salienti esperienze degli Stati costituzionali. Quand’anche poi dovesse ritenersi (ma francamente non vedo con quali argomenti) che la cesura in parola non si sia ancora avuta a pieno negli Stati suddetti, ugualmente vistoso appare essere lo scostamento dal modello delle liberal-democrazie, il solo che possa giustificare la perdurante appartenenza all’Unione da parte degli Stati che in esso si riconoscono e che ad esso ispirano la loro azione.
È, dunque, urgente – costi quel che costi – portare avanti con la massima sollecitudine le procedure avviate in applicazione dell’art. 7 TUE, non foss’altro che per il fatto che lo stesso meccanismo della “condizionalità finanziaria”, cui si è fatto sopra cenno, richiede – a stare ad una tesi argomentata da una sensibile dottrina [E. Castorina, Stato di diritto e “condizionalità economica”: quando il rispetto del principio di legalità deve valere anche per l’Unione europea (a margine delle Conclusioni del Consiglio europeo del 21 luglio 2020, in Federalismi, 29/2020, 21 ottobre 2020, 43 ss., spec. 53 ss.] – il previo perfezionamento delle procedure suddette.
In questo quadro, qui sommariamente delineato unicamente nei suoi tratti maggiormente marcati, non si trascuri il ruolo giocato dalle Corti europee; ed è di non secondario significato la circostanza per cui il principio di cui all’art. 4.2 TUE, che avrebbe potuto essere strumentalmente piegato a “copertura” della insindacabilità delle vicende interne ai singoli Stati, sia riletto a Lussemburgo alla luce del (e nel suo fare “sistema” con il) “metaprincipio” di cui all’art. 2 TUE, all’insegna cioè dei valori che stanno a base dell’Unione, con insistito riferimento a quella indipendenza dei giudici che – come si è venuti dicendo – è il cuore pulsante della costituzione materiale dell’Unione e, per ciò stesso, è (e deve esserlo) di ciascuno degli Stati che la compongono (v., ancora di recente, Corte giust., Grande Camera, 15 luglio 2021, in causa C-791/19, Commissione c. Polonia; v., inoltre, Touleya c. Polonia, ad oggi pendente). Il punto debole dei meccanismi di natura giurisdizionale messi a punto in ambito sovranazionale è, tuttavia, dato – come si sa – dal fatto che essi richiedono la fattiva collaborazione degli Stati per poter conseguire gli effetti che derivano dalla loro attivazione; una cooperazione che fin qui non si è avuta ed è da temere che seguiterà a non aversi, malgrado il deterrente della sanzione pecuniaria sopra indicata.
Il vero è che solo dall’azione sinergica esercitata, in spirito di fedeltà ai valori fondamentali dell’Unione, tanto da quest’ultima in ciascuna delle sue componenti (decisori politici e garanti) quanto dagli Stati, chiamati a prestazioni di lealtà e di cooperazione nei riguardi dell’Unione stessa, è possibile attendersi risultati almeno in una certa misura apprezzabili. Non è detto però che, al tirar delle somme, se ne abbia poi riscontro. L’Unione verrà, dunque, a trovarsi (se già non si è trovata…) al bivio e dovrà perciò decidere se imboccare la via che ne preserva l’identità quale organizzazione tendenzialmente “costituzionale” ovvero se optare per una soluzione che comunque ne determinerà lo snaturamento, con conseguenze peraltro – si faccia caso – idonee a riverberarsi anche sugli Stati membri, specie – è da temere – in quelli, come il nostro, nei quali la malapianta di un nazionalismo becero ed aggressivo si presenta rigogliosa e fiorente.
Non si perda, infatti, mai di vista, neppure per un momento, il fatto che tra Unione e Stati intercorre a doppio verso un flusso continuo di suggestioni e sollecitazioni di ordine politico-istituzionale di prima grandezza, le vicende che maturano in seno all’una avendo la loro immediata e più o meno visibile proiezione sui secondi, così come quelle che si svolgono in questi si riflettono poi su quella [maggiori ragguagli, volendo, in A. Ruggeri, Stato di diritto sovranazionale e Stato di diritto interno: simul stabunt vel simul cadent, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 3/2020, 15 novembre 2020, 10 ss.]. Lo smarrimento in seno all’Unione dello “Stato di diritto” e degli altri valori che con esso fanno “sistema” non si porrà, dunque, come un fatto che non ci riguarda o che è lontano da noi: sarà, di contro, una sconfitta per tutti, idonea a dar vita ad un effetto-domino dagli esiti imprevedibili, comunque nefasti.
Sarebbe bene non scordarselo.