Con una sentenza resa lo scorso 8 marzo 2022 nella causa C-205/20, la Grande Sezione della Corte di giustizia si è pronunciata su una questione pregiudiziale avente ad oggetto l’interpretazione dell’articolo 20 della direttiva 2014/67/UE, secondo il quale, «[g]li Stati membri stabiliscono le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per garantirne l’osservanza. Le sanzioni previste sono effettive, proporzionate e dissuasive».

La questione, nello specifico, traeva origine da un rinvio pregiudiziale proposto da un Tribunale austriaco chiamato a pronunciarsi sul ricorso avverso un provvedimento di natura sanzionatoria emesso dall’autorità amministrativa austriaca nei confronti di una società, nell’ambito di un’attività di distaccamento di lavoratori, per l’inosservanza degli obblighi giuslavoristici imposti dalla normativa nazionale.

Il giudice austriaco, preso atto della precedente giurisprudenza della Corte, con l’ordinanza di rinvio chiedeva ai giudici di Lussemburgo se e, nel caso, entro quali limiti, la normativa interna possa essere oggetto di disapplicazione da parte del giudice nazionale nel caso risulti sproporzionata. In particolare, il giudice del rinvio chiede alla Corte: a) se l’art. 20 della direttiva, a mente del quale le sanzioni devono essere proporzionate, abbia effetto diretto; b) in caso negativo, se il giudice nazionale, nell’impossibilità di procedere a interpretazione conforme della normativa interna rispetto al requisito di proporzionalità delle sanzioni, sia tenuto a disapplicare tale normativa nella sua interezza ovvero se possa integrarla in modo da imporre sanzioni proporzionate.

Per rispondere a tali questioni, la Corte di giustizia effettua un esplicito overruling (p.to 29) di quanto in precedenza affermato nella sentenza Link Logistik N&N: in quel caso, contrariamente a quanto allora sostenuto dall’Avvocato Generale Bobek nelle sue conclusioni, il giudice lussemburghese aveva escluso che il requisito della proporzionalità delle sanzioni potesse essere considerato dotato di effetto diretto, in quanto carente dei necessari requisiti di precisione e incondizionatezza.

Invece, nel caso in esame, la Corte ha affermato che l’art. 20 della direttiva 2014/67, nella misura in cui esige che le sanzioni siano proporzionate, è dotato di effetto diretto e, in forza di ciò, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la norma interna contrastante, qualora lo Stato membro si sia sottratto all’obbligo di prevedere misure adeguate.

A conferma di tali conclusioni, inoltre, la Corte invoca l’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in forza del quale, nella materia penale, le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato. Il principio di proporzionalità inscritto nella Carta rappresenterebbe un principio generale dell’Unione europea, richiamato dall’art. 20 in esame e, come tale, dotato di carattere imperativo.

Quanto poi alla seconda questione pregiudiziale, viene ribadito che, in virtù del principio del primato, considerato che il requisito di proporzionalità sancito all’art. 20 della direttiva 2014/67, come evidenziato, ha effetto diretto (in quanto si traduce in un vero e proprio divieto di adozione di misure sproporzionate), ogni norma nazionale confliggente può essere disapplicata dal giudice nazionale nei limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni rispettose nel canone in esame. La disapplicazione non deve quindi riguardare l’intero apparato sanzionatorio: l’autorità giudiziaria deve commisurare la “risposta punitiva” discostandosi, nel minimo, da quanto previsto dal legislatore nazionale in violazione del canone di proporzionalità.

In risposta alle preoccupazioni sollevate da alcuni governi intervenuti, la Corte ha ritenuto di soffermarsi, seppur brevemente, sulla compatibilità della delineata interpretazione del requisito di proporzionalità con i principi di certezza del diritto, legalità dei reati e delle pene e di parità di trattamento.

Il principio di certezza del diritto, infatti, secondo la Corte sarebbe rispettato dal momento che esige «che la normativa sia chiara e precisa, affinché i singoli possano conoscere senza ambiguità i propri diritti ed obblighi e regolarsi di conseguenza», caratteristiche presenti nel caso di specie.

Quanto al principio di legalità di cui all’art. 49, par. 1 CDFUE, esso invece implica che la legge «definisca chiaramente i reati e le pene che li puniscono». Nel caso in esame, affermano i giudici, tale principio non sarebbe d’ostacolo all’applicazione retroattiva dei principi enunciati dalla sentenza, in quanto idonei a incidere in senso favorevole sul trattamento sanzionatorio, già definito in materia di diritto del lavoro dalla normativa austriaca.

Da ultimo, secondo la Corte, nemmeno il principio di parità di trattamento subirebbe un vulnus, ove si acceda all’impostazione prospettata dalla Corte. Infatti, il principio di uguaglianza davanti alla legge – consacrato dall’art. 20 CDFUE – impone «che situazioni comparabili non siano trattate in modo diverso e che situazioni diverse non siano trattate allo stesso modo, a meno che una differenziazione non sia obiettivamente giustificata». Dunque, considerato che il requisito della proporzionalità impone un limite nella determinazione delle sanzioni che deve essere rispettato dalle autorità nazionali chiamate ad applicarle, con la possibilità per quest’ultime di graduarne l’entità in base alla gravità degli illeciti, non può ex se desumersi, dal fatto che le disposizioni nazionali siano di volta in volta disapplicate, una violazione del principio di parità di trattamento, in ragione della specificità di ogni singola fattispecie

Pertanto, conclude la Corte, in tale contesto appare chiaro come il principio di proporzionalità enunciato all’art. 20 «ha il solo effetto di indurre tale giudice ad attenuare la severità delle sanzioni che possono essere irrogate».

La sentenza in commento (già oggetto di approfondita analisi, cfr. F. Viganò), pur nella sua sinteticità, appare foriera di rilevanti conseguenze sul piano dell’applicazione concreta dei principi ivi sanciti. Le argomentazioni fornite dalla Corte, soprattutto con riferimento alla compatibilità dell’interpretazione prospettata dell’art. 20 con i principi fondamentali di certezza del diritto, di legalità e di parità di trattamento, rischiano di apparire non del tutto sufficienti a fugare ogni dubbio circa l’esistenza di possibili profili di frizione.

Seppur nel solo ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, il dictum della Corte consente al giudice nazionale di disapplicare le sanzioni c.d. punitive (sia quelle formalmente penali, sia quelle che lo sono in termini sostanziali, secondo la giurisprudenza lussemburghese) che appaiano in concreto sproporzionate. Pare complesso, in un simile contesto, non ravvisare un qualche vulnus rispetto ai principi di certezza del diritto, parità di trattamento e legalità se alla singola autorità giudiziaria sarà concesso di poter procedere autonomamente alla valutazione della proporzionalità della sanzione (o meglio: dei limiti ex lege dettati) nella concreta attività di commisurazione della stessa sulla base delle particolari circostanze del caso di specie, con l’ovvia conseguenza di rischiare di incappare in risultati tra loro non sempre allineati.

Inoltre, la possibilità di disapplicare le sanzioni sproporzionate da parte dei giudici nazionali nella loro attività di interpretazione finisce per attribuire in capo agli stessi un margine di discrezionalità particolarmente elevato, che poco sembra conciliarsi con il fondamentale principio della separazione dei poteri. In tal modo, si palesa il rischio di una sovrapposizione di poteri con quelli propri del legislatore, al quale, secondo il tradizionale insegnamento, dovrebbe spettare in via esclusiva la determinazione degli edittali entro cui devono essere commisurate le sanzioni.