La proposta di direttiva della Commissione europea sui platform workers è, senza dubbio, un passo in avanti rispetto alla giungla politico-giuridica che l’entrata in scena del fenomeno della «piattaformizzazione del lavoro» ha creato nell’ultima decade in Europa e nel mondo, acuitasi poi con la pandemia e con il riconoscimento sociale di quei soggetti come «lavoratori essenziali».
Vari segnali lo dimostrano. In primis, è da rilevare l’utilizzo della base giuridica – oltre a quella dell’art. 16 TFUE sul fronte della protezione dei dati personali – dell’art. 153 par. 1, let. b) TFUE, in materia di occupazione, che permette all’UE di completare l’azione degli Stati nel miglioramento delle condizioni di lavoro. L’obiettivo dichiarato, infatti, è di garantire ai platform workers un nucleo minimo di diritti applicabili in tutto il territorio europeo. Una linea, questa, di rivitalizzazione delle competenze sociali dei Trattati di recente ripresa dalla Commissione per alcune iniziative (tra tutte la proposta di direttiva sul salario minimo), che è il frutto di una valorizzazione, in questi ultimi anni, del Pilastro europeo dei diritti sociali, in controtendenza rispetto ad un passato, più legato alle competenze del mercato.
In secundis, è interessante notare l’evoluzione-cuore che propone la direttiva: l’introduzione di una presunzione iuris tantum di qualificazione subordinata del rapporto per questo tipo di lavoratori. La scelta del legislatore sovranazionale è scaturita da due diverse valutazioni. La prima è stata quella di adottare un approccio onnicomprensivo dell’intero settore delle piattaforme, proponendo una normativa, sia per le prestazioni lavorative in luoghi fisici offline (il cd. gig work), sia per quelle totalmente online (il cd. cloud-work), e di superare gli interventi nazionali (es. Italia, Francia, Spagna, ecc.), che si erano concentrati sulla regolamentazione di rami specifici come quelli dei servizi per la mobilità e del food delivery. La seconda, invece, è stata quella di sciogliere l’incertezza giuridica in merito alla qualificazione del rapporto di lavoro, facendo “scattare” la presunzione di subordinazione al ricorrere di due di quattro indici presuntivi previsti dall’art. 4, par. 2.: a) determinazione del livello di retribuzione; b) obbligo di rispettare regole vincolanti specifiche per quanto riguarda l’aspetto esteriore della prestazione; c) supervisione dell’esecuzione del lavoro o dei risultati, anche tramite mezzi elettronici; d) effettiva limitazione, anche mediante sanzioni, della libertà di organizzare il proprio lavoro.
In terzo luogo, la direttiva approccia anche, per la prima volta a livello sovranazionale, il cd. management algoritmico. Da questo punto di vista l’impostazione minimal della Commissione si concentra sul garantire: 1) una maggiore trasparenza e accessibilità dei criteri di funzionamento dell’algoritmo, sia da parte del lavoratore e delle rappresentanze sindacali, sia da parte delle autorità pubbliche competenti; 2) un controllo, sulla scia dell’acquis communautaire, dei dati personali del lavoratore; 3) un monitoraggio umano dei sistemi algoritmici, al fine di garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori (tra cui il cd. riesame umano di decisioni significative, con una chiara ripresa dell’art. 22 GDPR); 4) il riconoscimento del diritto di contestare le decisioni automatizzate, sia dinanzi ad un responsabile scelto dalla piattaforma, sia davanti ad un giudice imparziale.
Infine, un ulteriore dato da segnalare è la posizione “mediana” che la Commissione ha assunto, a seguito del lungo dialogo sociale – strutturatosi in una prima e in una seconda parte – con le associazioni sindacali europee dei lavoratori e delle imprese, che sostenevano, i primi, un intervento massiccio di armonizzazione sovranazionale della materia per “alzare” il livello di tutela, mentre, i secondi, spingevano per misure solo nazionali, per continuare a sfruttare il dumping salariale e non solo, scaturente dalla deregulation in UE. Non a caso, la scelta è ricaduta, infatti, su una regolamentazione sì a livello europeo del settore, ma che assumesse come presupposto la natura autonoma di questi rapporti di lavoro nella maggior parte dei casi e che ponesse come obiettivo la ri-conversione di quella parte residuale di “finti” autonomi che, sulla base del principio del primato dei fatti e non del nomen iuris, erano, in realtà, subordinati a tutti gli effetti.
Proprio partendo da quest’ultima constatazione si possono evidenziare, però, anche alcune critiche.
La prima riguarda proprio il fine per cui è stata promossa la direttiva, ovvero la mancanza di “chiarezza normativa”. È questo, difatti, il vero motivo che ha spinto la Commissione ad intervenire, spinta da un’esigenza di mera razionalizzazione di un settore economico in rapidissima espansione su tutto il territorio europeo (con previsioni di 43 milioni di occupati entro il 2025 e con ricavi attuali di 20,3 miliardi), ma pur sempre in un’ottica che pare rivolta al sempiterno mantra del migliore funzionamento del mercato. Sembrano del tutto sullo sfondo, infatti, finalità di giustizia sociale e di riequilibrio politico-normativo di un settore, come quello delle piattaforme, che ha mostrato di avvantaggiarsi, alla ricerca di un maggiore profitto, di un vuoto di tutele giuridiche, a tutto detrimento dei platform workers. In definitiva, quello che si evidenzia, più in generale, in tutto il diritto europeo e anche in questa direttiva è un utilizzo del diritto del lavoro sempre in chiave market-oriented, nel momento in cui l’idea alla base dell’intervento è garantire la certezza dei traffici commerciali (e quindi anche della forza lavoro che a quei traffici è funzionale), ma non certo finalità redistributive e di contrappeso a rapporti di forza sbilanciati tra capitale e lavoro nel settore delle piattaforme. Prove di questa tesi sono, da una parte, la motivazione del carattere ormai pienamente transfrontaliero di tali traffici, leva che fa scattare la necessità di un intervento in quanto vero core business dell’UE e, dall’altra, la scelta di adottare, antecedentemente a questa direttiva, un regolamento che disciplini i rapporti tra piattaforme, utenti commerciali e consumatori, strumentistica funzionale a quel quadro di sviluppo armonico del mercato, in cui i poteri pubblici si limitano a ruoli di “facilitatori” e di regolatori neutri.
Una seconda critica riguarda, invece, l’approccio al management algoritmico. Come dimostra anche la linea, in chiave più generalista, adottata nella proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale, la Commissione ha battezzato la strada di una regolamentazione light del rapporto tra lavoratori e piattaforma, garantendo diritti minimi individuali legati ai valori della trasparenza del funzionamento di questi meccanismi di controllo e gestione, poco valorizzando, invece, una dimensione collettiva di contestazione (tramite ad es. i sindacati), in chiave di contropotere sociale di governo dell’algoritmo. Siamo lontani anche qui, come è stato sostenuto, dalla costruzione di un diritto inteso come processo di «democratizzazione e […] controllo collettivo del potere algoritmico», che punti a questionare questa nuova versione del «capitalismo della sorveglianza», ma si resta sempre in una prospettiva di visione irenica e procedurale di democrazia, assumendo vesti neutrali e non volendo intervenire massicciamente sulla profonda disparità di rapporti di forza tra lavoratori e piattaforme.
In conclusione, nonostante la proposta di direttiva, da una parte, esprima un’iniziativa di regolazione dei platform workers che rompe il silenzio europeo su questa materia e che presenta dei tratti di novità (es. presunzione di subordinazione e diritti minimi contro il management algoritmico), questo intervento, dall’altra, non segna, senza dubbio, una rivoluzione nell’approccio alla questione sociale e soffre di quei problemi atavici di «constitutional (im)balance between ‘the Market’ and ‘the Social’» che l’UE si porta dietro nella sua costruzione.
La clausola di non regresso fornisce una minima speranza nel senso di una (potenziale) azione più robusta, da parte di qualche legislatore nazionale più illuminato, che affronti la diseguaglianza strutturale presente in quei rapporti di lavoro. Una parte importante dipenderà, in altre parole, oltre che dall’approvazione della direttiva stessa, dall’implementazione nazionale.
La vera sfida che la «piattaformizzazione del lavoro» porta dietro con sé, tuttavia, è il ripensamento di vecchi paradigmi di riconoscimento costruiti per il lavoro standard e l’apertura ad una nuova riflessione che guardi al lavoro come cartina di tornasole della trasformazione della società. Questo non c’è, ancora, nella direttiva e nella mente del legislatore europeo. Quello che si intravede è per ora, insomma, solo un passaggio «from laissez-faire to fairness».
Per chiudere con una nota di folklore, si potrebbe dire, citando Morandi-Ruggeri-Tozzi: un buon inizio, ma si può dare di più!
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