Dacché esiste l’Eurozona è la prima volta che la BCE si trova a dover fronteggiare dinamiche inflazionistiche. Si dirà che è in questi frangenti che dovrebbe apprezzarsi il ruolo di un banchiere centrale indipendente, visto che la sua ragione istituzionale è proprio la garanzia della stabilità dei prezzi (nel caso dell’UME mantenendo il tasso d’inflazione annuo inferiore ma vicino al 2%). Tuttavia, negli ultimi venti anni sono accadute molte cose: dopo una prima fase di relativa calma, si sono avvicendate emergenze diverse, dalle turbolenze finanziarie degli anni 2007-2008 (negli USA) alla crisi dei debiti sovrani in Europa (dal 2011); e per reazione sono state sperimentate politiche monetarie di tipo differente, che in qualche misura (per alcuni) o in larga misura (per altri) ci costringono a rivedere i paradigmi economico-istituzionali ricevuti.
In particolare, le domande che dobbiamo porci alla luce dell’esperienza maturata finora è se la stabilità dei prezzi dipenda veramente dalle prestazioni di una banca centrale indipendente e, in caso di risposta negativa, quale sia la vera finalità delle decisioni più recenti adottate dalla BCE.
Conviene iniziare dall’auto-percezione e auto-comprensione del banchiere centrale europeo. In un intervento del novembre scorso Christine Lagarde afferma che l’incremento dei prezzi dipende dai seguenti shock: «guerra, energia, turbative delle catene di approvvigionamento, riallocazione della domanda». Correttamente, non si fa cenno ai salari, i quali infatti sono rimasti essenzialmente al palo. È perciò un’inflazione dovuta ai costi energetici e a strozzature dell’offerta (a loro volta dipese anche dalla perdita di capacità produttiva e distributiva conseguente alla pandemia).
Ciò premesso, Lagarde aggiunge che «è la politica monetaria che determinerà se questi shock indurranno un’inflazione persistente»: in altre parole, sono le scelte del banchiere centrale a dissolvere o a radicare la tendenza inflazionistica, a spazzarla via o a cronicizzarla. Alla politica fiscale (nazionale) spetta, invece, il compito di ripartire l’onere dei maggiori costi energetici tra le diverse parti sociali: «una sua equa ripartizione tra reddito da lavoro e margini di profitto è certamente giustificata» e «la politica di bilancio può contribuire alla condivisione degli oneri tra le diverse fasce di reddito». Chiaro, no? Alla banca centrale compete solo la lotta all’inflazione, costi quel che costi e, perciò, senza preoccuparsi degli effetti redistributivi, che infatti devono essere a esclusivo carico delle decisioni politiche di bilancio.
Ma il fatto che il banchiere centrale “metta le mani avanti” è rivelatore, perché suona come l’ammissione implicita che la politica monetaria non è neutrale, come invece era (ed è ancora) sostenuto da una parte del pensiero economico mainstream, secondo cui l’inflazione è un fenomeno puramente monetario e deriva dal fatto che circola troppa moneta rispetto ai beni e servizi acquistabili: un ordine di idee per il quale basterebbe ridurre la quantità di moneta per avere un calo generalizzato di tutti i prezzi (sia dei fattori di produzione che dei prodotti finali), sicché alla fine nessuno ci guadagnerebbe e nessuno ci perderebbe: neutralità della politica monetaria, appunto. Invece, il discorso della Lagarde sembra prendere le distanze da questo approccio, seppure in modo non dichiarato espressamente. Pare supporre, infatti, che le misure di politica monetaria non siano mai indifferenti rispetto agli interessi sociali in gioco e che sempre favoriscano alcuni a discapito di altri: di qui l’evocazione del ruolo della politica fiscale, che eventualmente, e sempre che lo voglia, può correggere nel senso dell’equità gli esiti che conseguono da politiche monetarie restrittive.
Ma quale conflitto distributivo è risolto surrettiziamente dalla politica monetaria? Conviene ancora una volta prendere le mosse dalle dichiarazioni di Christine Lagarde, la quale si prefigge l’obiettivo di impedire sul nascere «una spirale salari-prezzi». Il processo di adeguamento dei salari al costo della vita va bloccato, e questo a prescindere dalla circostanza che finora sono ciò che è cresciuto di meno o che non è cresciuto affatto. Verrebbe da chiedersi: e gli extra-profitti delle imprese energetiche e di quelle che profittano delle strozzature dell’offerta? La stessa Lagarde riconosce che «i margini di profitto delle imprese sono rimasti invariati e, in alcuni settori, sono persino aumentati». Eppure, non a questi soggetti possono o devono rivolgersi le misure restrittive della politica monetaria indipendente, bensì ai lavoratori dipendenti, i soli sui quali deve ricadere il sacrificio necessario ad assicurare la stabilità dei prezzi. Ma in che modo le scelte della BCE inciderebbero sulle dinamiche salariali? Distruggendo domanda e fabbricando, così, disoccupazione: notoriamente, è la presenza di «un esercito industriale di riserva» (Marx) a tenere bassi i salari. Non si vede in quale altro modo si possa prevenire «una spirale salari-prezzi», sempre ammettendo (ma non concedendo) che siano i salari a tenere alti i prezzi.
E infatti, rimane comunque un che di inesplicato. Il banchiere centrale europeo profetizza un sicuro calo della crescita, poiché «a seguito della trasmissione dei prezzi dell’energia all’ingrosso alle tariffe delle utenze, le famiglie risentono sempre di più della compressione dei redditi reali e i consumi potrebbero diminuire»; inoltre, non solo «assistiamo al venir meno della domanda latente riconducibile alla riapertura delle attività», ma per di più «l’utilizzo dell’eccesso di risparmio sembra già essere ampiamente compensato da un rafforzamento del risparmio a fini precauzionali e dalla preferenza per la liquidità». Insomma, bisogna aspettarsi una compressione delle attività economiche, a prescindere da quello che deciderà la BCE. Sennonché, Lagarde aggiunge che «l’evidenza storica indica che non bisognerebbe attendersi un impatto significativo sull’inflazione dal rallentamento della crescita, almeno non nel breve periodo»: in sintesi, ci sarà crisi, ma l’inflazione resterà alta e bisognerà combatterla comunque. Alla flessione “naturalmente” prodottasi si aggiungerà, perciò, quella “artificialmente” indotta dalla restrizione monetaria. Eppure, non sembra che il quadro macroeconomico sia quello che, tipicamente, innesca la “spirale salari-prezzi”: ma allora, perché accanirsi così su ciò che, con tutta evidenza, non è stato all’origine dell’inflazione e neppure sarebbe potenzialmente idoneo ad ampliarla e radicarla?
Insomma, anche se la narrativa ufficiale non è più quella facente leva sulla teoria quantitativa della moneta (cioè, più moneta uguale più inflazione, meno moneta uguale meno inflazione) e anche se si accede, sebbene in forma ancora implicita, a una visione più realistica delle funzioni del banchiere centrale (e dei conflitti distributivi che interviene a regolare), rimane un mistero quale sia il vero obiettivo della strategia di politica monetaria seguita recentemente dalla BCE.
Un indizio, però, è offerto da un passaggio finale del discorso di Lagarde, là dove si osserva che «a fronte del rallentamento dell’economia e della compressione dei redditi reali, la politica di bilancio potrebbe assumere un orientamento più espansivo al di là del contributo degli stabilizzatori automatici. In un contesto caratterizzato da vincoli dal lato dell’offerta si rischierebbe tuttavia di accentuare le pressioni inflazionistiche, costringendo la banca centrale a un inasprimento della politica monetaria superiore a quanto altrimenti necessario». Tradotto in termini (più) brutali: bisogna smettere di spendere in deficit, altrimenti i tassi di interesse saranno rialzati più del previsto. Sembra, quindi, che il vero scopo sia più quello di disciplinare la decisione di bilancio dei governi nazionali, che non di assicurare la stabilità dei prezzi. Va da sé che se le politiche fiscali smettono di essere espansive, la domanda e l’occupazione si contraggono, e i salari non crescono. Ma in questo caso sarebbe l’austerità fiscale a deflazionare l’economia e non il banchiere centrale.
Non per caso da più parti si avanza il dubbio che una banca centrale indipendente possa davvero fare qualcosa contro l’inflazione (specialmente se questa deriva da uno shock da offerta). La parte più avanzata della stessa letteratura mainstream, abbandonando le premesse della quantity theory of money, assume che le politiche monetarie agiscano non già direttamente sul livello dei prezzi, bensì sulle aspettative di inflazione degli attori economici. Deve sembrare che il banchiere centrale possa e voglia ridurre l’aumento dei prezzi, affinché si formi un tasso di inflazione atteso in grado di orientare poi quello effettivo: come una profezia auto-avverantesi, se ci si aspetta minore inflazione ci sarà minore inflazione, e viceversa. Ma è un approccio veramente convincente?
Ora, lasciando da parte la questione se le aspettative abbiano un ruolo nella causazione dei fatti economici, in ogni caso quest’approccio teorico rivela che non ci sarebbe un nesso causale diretto tra le scelte del banchiere centrale e il livello dei prezzi: affinché le prime possano in qualche modo influenzare il secondo, occorre che tutti credano che ciò sia possibile. Ma cosa succede se questa credenza collettiva non si radica o se svanisce? E soprattutto, quale effetto e interesse reali dipendono direttamente dalle decisioni di politica monetaria? Non c’è dubbio che le politiche monetarie restrittive possono ostacolare in modo serio le scelte fiscali espansive e contribuire, così, alla distruzione di domanda e di occupazione, senza però che da ciò sortisca automaticamente qualche risultato sul fronte della lotta all’inflazione. Ma allora a chi giovano?
Ne beneficiano tutti coloro che hanno interesse a un rialzo dei tassi di interesse: istituti di credito, gestori di risparmio, capitali altamente solvibili e interessati a sbaragliare ed eventualmente assorbire quelli poco solvibili, Stati creditori, ecc. L’inflazione, com’è risaputo, spinge i tassi reali verso il basso, fino a renderli negativi e compromettere la redditività degli attivi finanziari; per la medesima ragione traggono invece sollievo i capitali più fragili, che infatti possono rifinanziarsi a basso costo. Ecco perciò che il banchiere centrale solleva i tassi di interesse non tanto per raffreddare investimenti e domanda, e quindi per deflazionare l’economia, quanto per compensare i creditori della perdita di valore dei loro capitali, agendo come una sorta di “scala mobile” (Brancaccio) dei capitali anziché dei salari. Se la crescita dei prezzi erode il valore dei capitali finanziari, il rialzo dei tassi incrementa la redditività delle attività finanziarie e consente ai capitali di recuperare il valore perduto. Inoltre, la decisione sui tassi incide pure sulle condizioni di solvibilità del sistema: si può stabilire che siano più alti o più bassi secondo che si voglia agevolare o espellere dal mercato i debitori più fragili, frenando o accelerando l’aumento dei fallimenti e delle bancarotte.
Ora, la scelta se intraprendere l’una o l’altra via e di risolvere il conflitto distributivo in un senso o nell’altro è una decisione puramente discrezionale, “politica”, e non già dettata da regole economiche obiettive e perciò neutrali. Certo, in base ai Trattati la BCE deve sempre giustificare la propria azione in relazione al parametro della stabilità dei prezzi, da tenere sotto ma vicino al 2% annuo e, quindi, combattendo allo stesso modo sia l’inflazione, quando porta i prezzi sopra il 2%, sia la deflazione, quando li spinge troppo sotto il livello prescritto. Fu questa, infatti, la motivazione esplicita delle politiche monetarie espansive adottate da Draghi a partire dal 2012. Ma in realtà, contro la narrazione ufficiale, va detto che l’aumento dell’offerta di moneta era finalizzato a tutt’altro che non alla stabilità dei prezzi, poiché era rivolta piuttosto ad arginare la grande ondata delle insolvenze debitorie, mediante una politica di tassi di interesse reale negativi che andasse incontro ai capitali più a rischio di insolvenza. Inaugurò, insomma, un diverso indirizzo di governo del rapporto conflittuale tra capitali forti e capitali deboli, e quindi tra Stati creditori e Stati debitori, con l’equilibrio spostato a favore dei secondi anziché dei primi (come invece era in passato).
Invece, la politica di alti tassi è una misura compensativa in favore dei capitali forti, la cui valorizzazione sarebbe stata troppo a lungo sacrificata dalle politiche “compassionevoli” della fase precedente (iniziata nel 2012 e proseguita sin dopo la fine dell’emergenza pandemica). La BCE ha deciso di arbitrare il braccio di ferro tra capitali forti e deboli, e quindi indirettamente tra Stati creditori e Stati debitori, favorendo le attese dei primi anziché dei secondi. È un’inversione di rotta ancora timida e i tassi rimangono comunque al di sotto di quelli decisi dalla FED e da altre banche centrali. Ma segnala che i vecchi equilibri di forza sono ancora lì, pronti a ripristinare gradualmente la loro influenza.
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