L’Europa degli Stati sociali di diritto (nei quali il diritto alla salute è diritto fondamentale dell’individuo), l’Europa del diritto pubblico e dei servizi anch’essi pubblici si è presentata più debole di quanto fosse lecito aspettarsi di fronte alla questione dello sviluppo e dell’approvvigionamento dei vaccini. Molte sono state in questi mesi le critiche rivolte ad un sistema europeo definito “fragile”, accusato di essere incapace di sviluppare una politica credibile sui vaccini, bollato addirittura come un “disastro” all’inizio di aprile da Paul Krugman sulle colonne del New York Times.
Le ragioni di una performance che, al di là della condivisibilità o meno dei toni usati per descriverla, non è stata certo fra le più soddisfacenti, sono molte, ma la principale, a mio modo di vedere, è la rinuncia dell’Europa alla “forza” dello strumentario del diritto pubblico.
Nell’approvvigionamento dei vaccini gli Stati europei e l’Unione si sono presentati come semplici acquirenti privati di fronte a mega-imprese farmaceutiche che si trovano in una posizione di straordinaria forza. L’unica misura “pubblica” è stata il coordinamento europeo delle opzioni di acquisto. Ma, anche qui, l’esito non è stato quello della costituzione di un interlocutore pubblico sovranazionale, ma semplicemente di un super-acquirente privato, che non è stato in grado, peraltro, neanche di strappare, nonostante la dimensione, accordi contrattuali particolarmente vantaggiosi. Del resto gli Stati sociali di diritto, quando si muovono sul piano del “puro” diritto privato, sono strutturalmente contraenti deboli, dal momento che non hanno a disposizione neanche l’estremo strumento della rinuncia all’acquisto: sono infatti costituzionalmente gravati del dovere di soddisfare il diritto alla salute della loro collettività. Non c’è da stupirsi allora se, in questa situazione, gli accordi conclusi con i giganti farmaceutici siano favorevoli a questi ultimi: basti pensare alle clausole che li proteggono dalle conseguenze dei possibili effetti avversi dei vaccini, alla mancanza di condizioni contrattuali che vincolino le consegne, o, ancora, alla riservatezza imposta dall’impresa sulle condizioni contrattuali.
A ben guardare questa povertà di strumenti pubblici nella relazione con l’impresa farmaceutica non si configura come una scelta contingente e legata all’urgenza della pandemia, ma rappresenta il portato di un processo che data diverso tempo e che è segnato dal progressivo rarefarsi della politica nelle decisioni delle istituzioni europee e dal prevalere delle logiche economico finanziarie. Un processo di trasformazione che, all’interno dei singoli Stati, ha accompagnato l’evoluzione del rapporto fra sfera pubblica e mercato del farmaco, segnando in questi ultimi decenni il passaggio dai prezzi amministrati, a quelli regolati, fino ai prezzi contrattati. Una trasformazione che, da un lato, ha dovuto tener conto del formarsi di un mercato farmaceutico sovranazionale, dall’altro ha favorito, attraverso la rinuncia progressiva a misure di carattere pubblico, la formazione di tale mercato. L’esito, non scontato, è stato quello dello spostamento del “terreno di gioco” su un piano puramente contrattuale, come dimostrano le strategie poste in essere dai singoli Stati membri dell’Unione nell’acquisto ordinario di farmaci, che, non di rado li vedono impegnarsi a mantenere segreti accordi con le case farmaceutiche in modo da ottenere sconti e ribassi dei quali non possano così beneficiarne anche altri membri dell’Unione.
Rispetto a questa dinamica, certamente il coordinamento europeo nell’acquisto del vaccino rappresenta un successo, ma un ben misero risultato rispetto a quello che avrebbe potuto essere se l’Unione si fosse mossa da subito sul piano che è proprio della nostra cultura giuridica continentale: quello in cui il diritto pubblico non funge da mera infrastruttura delle istanze economiche e finanziarie, ma definisce scelte comuni a tutela degli interessi generali, fornendo una “visione politica” delle cose. Scegliere di operare attraverso il diritto pubblico vuol dire anche decidere responsabilmente di utilizzare risorse e potere (pubblico) per modificare l’equilibrio delle relazioni che la società e il mercato raggiungerebbero spontaneamente se lasciati a loro stessi, vuol dire, cioè, costruire politiche per incidere sul futuro.
Proviamo allora ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere se sin dall’inizio l’Europa si fosse mossa impiegando gli strumenti del diritto pubblico e operando unitariamente per finanziare con risorse pubbliche una ricerca pubblica. Certamente a dover essere coinvolti, vista l’urgenza, sarebbero stati quegli stessi colossi farmaceutici con i quali dialoghiamo oggi, ma i finanziamenti avrebbero potuto essere vincolati ad una futura politica pubblica di produzione massiva del primo farmaco che si fosse rivelato utile, magari anche da parte di quelle imprese che, pur finanziate per sviluppare un vaccino, non fossero riuscite ad individuare in tempo una formula efficace. Un coordinamento in questa fase avrebbe certamente reso più produttivo il finanziamento, consentendo politiche comuni di ricerca, economizzazione delle risorse e, soprattutto, nella fase di produzione, coinvolgimento di una pluralità di imprese, anche di quelle che attualmente sono invece ancora impegnate a cercare il “proprio” vaccino. Indipendentemente dal prezzo, che magari sarebbe stato lo stesso, ma questo poco importa, avremmo potuto contare oggi su una fornitura più consistente - aspetto, questo si, davvero importante - e soprattutto avremmo potuto governare la vaccinazione di massa senza le incertezze e i passi indietro a cui siamo stati abituati in questi mesi.
Ma così non è stato, perché la modalità di finanziamento (con risorse pubbliche) non si è configurata come investimento pubblico in ricerca, ma come acquisto anticipato di dosi dell’eventuale vaccino autorizzato, secondo una dinamica che si è mossa di nuovo tutta sul piano della relazione contrattuale, e che non ha quindi conferito alla sfera pubblica nessuno strumento di politica vaccinale.
La debolezza nella fase di approvvigionamento delle dosi, quindi, non è che la conseguenza dell’originaria rinuncia allo strumentario di diritto pubblico, per muoversi nel campo del mercato del farmaco e interloquire con l’impresa su un piano puramente contrattuale. Se questo è il terreno di gioco, non c’è da sorprendersi che, come alcuni commentatori hanno segnalato, gli Stati Uniti siano stati più efficienti. Si tratta di una realtà istituzionale da sempre abituata ad operare in questo modo e che, proprio per questo, sul fronte contrattuale si muove con strumenti molto più affilati, utilizzando mezzi di pressione ai quali noi non siamo avvezzi.
Nelle nostre realtà nazionali e in quella europea la scelta di operare come autorità pubblica o come attore privato comporta l’opzione per un modello di azione fortemente differenziato in cui gli strumenti sono diversi e non traslabili dall’uno all’altro ambito giuridico. Negli USA non è così. Se guardiamo alle vicende di questo anno non possiamo che constatare come il governo statunitense sia in grado di impiegare nella relazione con l’impresa, che pure resta contrattuale, strumenti piuttosto incisivi che lo rendono un contraente niente affatto debole: dai limiti all’esportazione, fino alla non ufficialmente ventilata, ma certamente “temuta” (se ne è discusso anche all’inizio di maggio sul New York Times) clausola del Bahy-Dole Act, che consente al Governo di entrare direttamente nella produzione dei farmaci nel caso in cui i prezzi non siano “ragionevoli”. In questo quadro anche l’apertura di Biden alla possibilità di licenze obbligatorie per i vaccini appare, oltre che come un doveroso riconoscimento della particolare natura di questo “bene” fondamentale, come uno strumento di politica contrattuale da impiegare nel rapporto con Big Pharma, per non restare schiacciati dal peso degli oligopolisti del vaccino.
Sorprendente, ma non troppo, che l’Europa, dalla quale per prima era lecito aspettarsi questa apertura, sia invece rimasta spiazzata dall’uscita di Biden e sia apparsa disunita sulla posizione da assumere in proposito. Le dichiarazioni di Ursula Von der Leyen al summit sociale di Porto, nella misura in cui mostrano insieme adesione e rifiuto dell’idea delle licenze obbligatorie, rivelano tutta la difficolta di una cultura giuridica che sembra aver perduto i propri punti di riferimento storici. La strada intrapresa nel continente non contempla strumenti pubblici e l’ipotesi di un intervento in cui torna in gioco l’autorità degli Stati confonde i governi, rivelando ancora una volta quanto sia debole il ruolo di “meri” acquirenti nel quale hanno scelto di confinarsi.