Il 27 ottobre 2021 la Corte di giustizia dell’Unione europea (o, meglio, il suo Vicepresidente) ha pronunciato una “roboante” ordinanza ai sensi dell’art. 279 TFUE (commentata su questo blog) con cui la Polonia è stata condannata a pagare alla Commissione una penalità di 1 milione di euro per non essersi conformata agli obblighi derivanti dalla precedente ordinanza cautelare del 14 luglio 2021. Quest’ultima, anch’essa resa ai sensi dell’art. 279 TFUE, aveva imposto di sospendere l’applicazione di varie disposizioni normative relative all’organizzazione degli organi giurisdizionali ordinari, della Corte suprema e degli organi giurisdizionali amministrativi polacchi. Norme che, sinteticamente, non garantivano (rectius, garantiscono) l’indipendenza, l’imparzialità e la precostituzione per legge dei giudici, principi posti alla base dello stato di diritto.
Entrambe le domande di provvedimenti provvisori si inserivano nel contesto di un ricorso per inadempimento ex art. 258 TFUE diretto a far dichiarare che la Polonia, impedendo il rispetto dei predetti principi, è venuta meno agli obblighi derivanti dall’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE, dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché dall’art. 267 TFUE e dal principio del primato del diritto dell’Unione.
Com’è noto, l’art. 279 TFUE – insieme all’art. 278 TFUE e all’art. 160 del regolamento di procedura della Corte – costituisce il fondamento normativo della tutela cautelare nel processo dinanzi alla Corte di giustizia. La disposizione, dalla formulazione estremamente ampia e generica, non indica alcunché sull’oggetto dei provvedimenti, potendo la Corte «ordinare i provvedimenti provvisori necessari» (corsivo aggiunto). L’ampiezza della norma è ancor più evidente nella sua versione inglese, secondo cui «The Court of Justice [...] may [...] prescribe any necessary interim measures»: il verbo “may” è notoriamente indicativo di una mera possibilità e privo di implicazioni prescrittive, a differenza di altri verbi modali come “should” o “shall”. Naturalmente, l’atipicità dei provvedimenti d’urgenza, unitamente all’ampio margine di discrezionalità di cui gode la Corte nell’applicarli, garantisce una certa “adattabilità” della tutela cautelare alla fattispecie concreta. Vale comunque la pena interrogarsi sull’opportunità, da parte della Corte, di condannare gli Stati membri al pagamento di denari a titolo cautelare.
La prima volta in cui la Commissione ha richiesto, in generale, l’adozione di misure cautelari nel contesto di un ricorso per inadempimento risale agli anni Ottanta: la guardiana dei trattati chiedeva che fosse ordinato alla Francia di cessare senza indugio la condotta illecita oggetto del giudizio (consistente nell’applicazione di un regime restrittivo all’importazione di carni ovine provenienti dal Regno Unito); l’istanza non venne accolta.
La prima occasione in cui la Commissione, invece, ha paventato la possibilità di richiedere la comminazione di una penalità a titolo cautelare riguarda un recente procedimento a carico della Polonia per la violazione di talune disposizioni in materia ambientale (poi effettivamente non condannata al versamento dei denari per l’avvenuto adempimento). Le ragioni addotte a giustificazione di tale strada erano essenzialmente due: da un lato, l’interpretazione letterale dell’art. 279 TFUE, dall’altro lato, la necessità di assicurare il fine utile del procedimento sommario, cioè la piena efficacia della futura decisione definitiva.
Si tratta dei medesimi argomenti utilizzati nell’ordinanza del 20 settembre 2021, che ha visto la condanna della Polonia al pagamento, a titolo cautelare, di 500.000 euro al giorno per non essersi conformata all’ordinanza che le imponeva di interrompere l’attività di estrazione di lignite nella miniera di Turów. Il procedimento sommario si inseriva nell’ambito di un ricorso per inadempimento ex art. 259 TFUE, proposto dalla Repubblica ceca per far accertare che la Polonia era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di una serie di disposizioni in materia ambientale. Tale procedimento costituisce il primo caso in cui la Corte ha effettivamente accolto l’istanza di condanna di uno Stato membro al pagamento di una penalità in via cautelare.
Tanto detto, l’audace approccio fatto proprio dal giudice del Kirchberg fa sorgere alcuni legittimi dubbi.
In primo luogo, la penalità di mora e, in generale, l’imposizione di sanzioni sembrano essere più che altro degli strumenti di enforcement che non si adattano benissimo ai procedimenti cautelari, il cui scopo principale non è di natura esecutiva, ma è quello di evitare che il trascorrere del tempo in attesa della decisione nella causa principale possa creare delle (o aggravare le) conseguenze della condotta illecita.
Si consideri, poi, che la Corte stessa, in passato, ha affermato che i provvedimenti provvisori, da un lato, non possono oltrepassare le competenze della Corte in sede di procedimento sommario e, dall’altro lato, non devono “neutralizzare” preventivamente gli effetti della decisione che sarà successivamente pronunciata nella causa principale. È stato giustamente osservato che la Corte, anche per tali ragioni, ha tradizionalmente mostrato una certa riluttanza a disporre provvedimenti che andavano oltre la mera sospensione dell’atto la cui validità o compatibilità è contestata in giudizio.
Dal lato opposto, sebbene il giudice non possa interpretare e applicare le disposizioni del trattato in modo da estendere la propria competenza oltre i limiti da queste stabiliti, è anche vero che un’interpretazione estensiva di tal fatta potrebbe rendersi necessaria per garantire la piena efficacia delle disposizioni stesse. Ciò vale a fortiori se si considera che il caso di specie (come i precedenti citati) si inserisce in un procedimento per inadempimento che, com’è noto, può concludersi solo con una sentenza meramente dichiarativa. Anzi, si potrebbe sostenere che, nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 258 TFUE, le misure cautelari possono talvolta rilevarsi più proficue delle sentenze stesse.
Per quanto concerne il caso di specie, sarebbe stato auspicabile, quantomeno a tutela del diritto di difesa degli Stati membri, che fosse indicata una motivazione dei criteri utilizzati per richiedere e fissare l’importo della penalità di mora, come peraltro eccepito dalla Polonia. Sebbene né l’art. 279 TFUE né l’art. 160 del regolamento di procedura della Corte prevedano l’obbligo, per la Commissione, di proporre un importo preciso quando chiede l’imposizione di una penalità a titolo di misura provvisoria, è anche vero che un allineamento all’art. 260, par. 2, TFUE sarebbe in ogni caso più rispettoso del principio del “giusto processo”, a maggior ragione se si considera la (apparentemente?) ingente somma comminata nel caso de quo.
Peraltro, a prescindere dalle legittime perplessità sull’an e sul quomodo, l’ordinanza consente di avanzare qualche breve speculazione anche sul quantum della penalità che, come si accennava, è forse solo apparentemente copioso.
Prima facie e da un punto di vista meramente quantitativo, la condanna al versamento di 1 milione di euro al giorno potrebbe rappresentare un provvedimento provvisorio molto (o addirittura eccessivamente) “penetrante”. Prendendo in considerazione le sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 260, par. 2 e 3, TFUE (che, in materia di procedure di infrazione, costituisce l’unico termine di paragone), il massimo importo comminato dalla Corte è pari a 42.800.000 euro semestrali (circa 237.000 euro al giorno) nei confronti dell’Italia per la vicenda “rifiuti in Campania”, peraltro applicato in forma degressiva.
Eppure, guardando la vicenda da un altro punto di vista, la somma potrebbe essere solo apparentemente “roboante”, nella sostanza risultando più che sostenibile. Sia sufficiente notare che nell’ambito dello strumento temporaneo per la ripresa “NextGenerationEU”, la Polonia dovrebbe ricevere 36 miliardi di euro, di cui 23,9 miliardi “a fondo perduto” e 12,1 miliardi in forma di prestito. È un’ipotesi nota (e recentemente ribadita) quella per cui la Commissione potrebbe non approvare il piano presentato dalla Polonia in assenza di un chiaro segnale nella direzione del rispetto dell’indipendenza della magistratura. Orbene, immaginando che lo Stato non versi il milione al giorno a cui è stato condannato, e immaginando che non lo versi per molti anni, per esempio dieci, la somma accumulata e non pagata sarebbe pari a 3,65 miliardi, il 10% circa dell’importo che dovrebbe ricevere in forza del NextGenerationEU.
Il paragone, certo azzardato, potrebbe fornire la misura dell’effettivo impatto (anche politico e non solo economico) dell’ordinanza cautelare sullo Stato membro, forse molto meno audace di quanto potrebbe prima facie apparire. Peraltro, è d’uopo ribadirlo, tale speculazione sul quantum non esclude in alcun modo che l’approccio adottato dalla Corte nei confronti dei provvedimenti provvisori sia, per le ragioni brevemente esposte, se non audace, quantomeno criticabile, sia con riguardo all’an che con riguardo al quomodo. È probabile che, alla base di tale atteggiamento, vi sia la volontà di tutelare con forza principi e normative (stato di diritto e ambiente, considerando il precedente nei confronti della Polonia) di vitale importanza per la tenuta dell’ordinamento e il benessere dei cittadini. Se così fosse, e se la prassi dovesse in futuro consolidarsi, sarebbe allora auspicabile un’estensione delle garanzie poste a tutela degli Stati membri nell’ambito dei c.d. procedimenti di “doppia condanna” anche ai procedimenti sommari.