Il nome della cittadina di Bucha, situata nell’Oblast di Kiev a poche decine di chilometri dal centro della capitale, era totalmente sconosciuto fino a poche settimane fa all’esterno dei confini ucraini. Purtroppo, d’ora in avanti, questo nome sarà invece associato in modo infausto al più grave massacro di civili sul suolo europeo di cui si abbia memoria dalla famosa strage di Srebrenica del 1995. Quello che sta accadendo oggi in Ucraina era considerato impensabile da gran parte degli studiosi di relazioni internazionali occidentali. Lo spettro di una guerra convenzionale in Europa sembrava infatti essersi allontanato dal continente fin dalla fine degli anni ‘60, per poi dissiparsi definitivamente con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine del patto di Varsavia. Eppure, a riprova di quanto il corso degli eventi sia imprevedibile e le speranze umane spesso una chimera, proprio nel 2022 assistiamo ad una guerra convenzionale sul suolo europeo tra due Stati in seguito ad un’invasione militare.
La gravità di quanto sta accadendo ai confini dell’Unione Europea e della Nato non può che spingere gli Stati membri delle due organizzazioni a rivalutare l’importanza della propria sicurezza e a riscoprire, forse tardivamente, il valore della cooperazione nel settore della Difesa. L’Unione Europea, come è noto, è stata accusata nel corso delle crisi internazionali degli anni ’90 di essere “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”. I numerosi trattati che si sono succeduti da allora, tra cui quello di Amsterdam e di Lisbona, hanno provato a rimediare proprio a questo vulnus dotando l’Unione Europea di un Alto Rappresentante per poter rappresentare una politica estera comune, di un servizio diplomatico gestito da Bruxelles (SEAE) e di una base comune di politica di sicurezza e difesa (PESD).
I progressi, soprattutto in questo ultimo campo, sono stati tuttavia timidi. Il primo e unico impulso degno di nota per la creazione di un coordinamento militare fu raggiunto nei primi anni 2000 grazie alla sintonia tra Tony Blair e Jacques Chirac; una cooperazione funestata dalla seconda guerra del Golfo e dalla divergenza anglo-francese in merito all’opportunità o meno di destituire Saddam Hussein. Tra i progressi degni di noti entrati nel framework europeo PESD in quegli anni ricordiamo l’obiettivo (mai raggiunto) di creare una forza di reazione rapida europea composta dalle forze armate degli Stati membri di ben 60.000 uomini entro il 2010, con eventuali assetti aereo-navali a sostegno (designati sulla carta, ma mai realizzati). Le difficoltà dell’UE di far avanzare le politiche di Difesa negli anni successivi e di realizzare gli obiettivi minimi che essa si era prefissa sono dovute a diversi fattori, tra cui la crisi economica e l’ostilità di Stati “scettici” come la Danimarca e Malta, così contrari alla creazione di una forza armata sentita ridondante rispetto alla Nato da esercitare il proprio diritto di non partecipazione a queste iniziative (opt out). Il vento è iniziato a cambiare dopo il 2016, ossia dopo la nascita dello Stato Islamico del Daesh e l’inizio delle ostilità in Donbass.
Tra la fine della Commissione Junker e l’inizio di quella a guida Von der Leyen si sono visti notevoli sviluppi nel comparto della politica comune di difesa (ora PSDC – Politica di sicurezza e difesa comune), tra cui l’introduzione di un fondo europeo per la ricerca militare (EDF), una cooperazione rafforzata in progetti di Difesa (PESCO) e da ultimo l’introduzione di una bussola strategica (Strategic Compass) per riprendere a tessere la tela strategica lasciato incompiuta quasi 20 anni prima. Tutti questi progressi sono certamente stati velocizzati dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha letteralmente riportato la guerra alle porte degli europei. Prima di tutto, quasi tutti i governi UE in seguito all’inizio delle ostilità hanno deciso in tempi rapidissimi di incrementare le proprie spese per la Difesa (tendenzialmente fino ad arrivare al 2% del PIL), rendendo quindi disponibili nuove risorse anche per progetti di cooperazione congiunta. In secondo luogo, alcuni Stati tradizionalmente fuori dai processi PESD/PSDC per motivi di politica interna hanno scelto di rientrare nel network, come la Danimarca che a giugno terrà su questo un referendum. In terzo luogo, l’adozione della Bussola Strategica, da più di un anno sui tavoli negoziali, è stata velocizzata dandosi alcuni obiettivi concreti ma pur sempre di lungo periodo, come quello di dotarsi di una forza di reazione rapida di 5000 effettivi entro il 2030.
Il summit di Versailles del 10 marzo scorso ha tuttavia spento gli entusiasmi di chi pensava che l’Ue avrebbe finanziato queste nuove spese militari con dei sostegni diretti agli Stati. Al contrario, scartata l’ipotesi di aiuti diretti delle istituzioni europee all’acquisizione di sistemi d’arma, il tema da allora sembra essere se la Commissione sarà in grado di coprire se non altro i disavanzi dovuti allo shock post-sanzioni che alcuni governi subiranno. L’Italia a questo riguardo sembra, insieme alla Germania, uno dei Paesi più esposti e quindi più bisognosi dell’aiuto di Bruxelles, come sottolineato dallo stesso Presidente del Consiglio. La delusione per l’assenza di un piano UE per l’acquisizione di sistemi d’arma non è l’unico problema in vista per i 27. Appare effettivamente sempre più urgente, come recentemente sottolineato dall’Istituto Affari Internazionali, il coordinamento di una politica comune anche per il previsto aumento delle spese militari nazionali, se non si vuole che questo incremento del budget si risolva nell’acquisizione di armamenti diversi tra loro e poco compatibili, andando a minare uno degli obiettivi dello Stategic Compass.
La bussola strategica e la PSDC a confronto con il conflitto ucraino mostrano quindi diverse crepe, dovute soprattutto alla colpevole trascuratezza con cui il tema Difesa è stato trattato dagli Stati membri prima che fosse troppo tardi. Il panorama non è però interamente negativo. Nell’attuale congiuntura, infatti, sorprende positivamente la rapidità con cui il Consiglio europeo e la Commissione hanno portato gli eterogenei governi UE ad una posizione unita di sostegno all’Ucraina, spingendosi persino alla storica di decisione di inviare armi per la difesa di Kiev attraverso un meccanismo di trasferimenti non semplice. Quest’intraprendenza di Bruxelles, che ben riflette anche il coordinamento tentato e riuscito su vaccini e green pass durante la pandemia, può far sperare che l’Europa non sia più quel “nano politico” di cui si parlava trent’anni fa.
A questo riguardo, il crescente protagonismo della Commissione e del Consiglio, bilanciato da un ruolo ridotto dell’Alto Rappresentante, è probabilmente destinato a definire gli equilibri politici futuri in vista di una riforma istituzionale dell’UE mirata all’efficienza e alla rapidità decisionale, come da certuni auspicato. In altre parole, ogni riapertura del cantiere europeo e quindi una revisione istituzionale dell’Unione (magari a seguito della Conferenza sul futuro dell’Europa) sarà inevitabilmente influenzata dalla crisi di sicurezza recente e quindi dalle tremende immagini di Bucha. D’ora in avanti, gli europei si chiederanno quale sia il modo migliore per garantire la sicurezza degli Stati membri e del loro vicinato, di modo che si possa sperare di evitare che su ripetano gli orrori ai quali stiamo assistendo e che il nostro continente conosce bene.