Quella delle concessioni balneari assume i contorni di una “saga”.
Con sentenza depositata lo scorso 1° marzo, la sesta sezione del Consiglio di Stato ha stabilito che la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del d.l. n. 198/2022 (il c.d. “milleproroghe”, convertito con modificazioni dalla l. n. 14/2023), avendo previsto un’ulteriore proroga automatica delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, «si pone in frontale contrasto» con la disciplina di cui all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE «e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato» (al pari dell’art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145/2018, che, come noto, aveva disposto l’estensione della durata delle concessioni in essere sino alla fine del 2033).
La decisione della sezione semplice rispetta evidentemente i precedenti dell’Adunanza plenaria che, come noto, si è pronunciata in due oramai celebri sentenze “gemelle” – le nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021 – con cui ha stabilito, da un lato, che le norme legislative nazionali che hanno disposto «e che in futuro dovessero ancora disporre» proroghe automatiche sono in contrasto con il diritto dell’Unione, e, dall’altro lato, che a partire dal 31 dicembre 2023 tutte le concessioni demaniali in essere in virtù di proroghe devono considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se vi sia – o meno – un soggetto subentrante nella concessione.
L’intervallo temporale deciso dai giudici aveva lo scopo, tra gli altri, di consentire a governo e parlamento di approvare una normativa che potesse «finalmente» riordinare la materia e disciplinare in conformità con l’ordinamento “comunitario” il sistema di rilascio delle concessioni demaniali.
È fatto noto che, in ossequio a tale decisione, il legislatore, con l. n. 118/2022 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021), abbia invero stabilito che le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per l’esercizio delle attività turistico-ricreative restano valide fino al 31 dicembre 2023 (o, al più tardi, al 31 dicembre 2024 qualora sussistano ragioni oggettive che impediscono l’espletamento della procedura selettiva), delegando contestualmente il governo ad adottare dei decreti legislativi di attuazione entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge e, quindi, entro lo scorso febbraio. Peraltro, la delega non è stata attuata e, anzi, sulla base di un emendamento di origine parlamentare, le predette scadenze, con il milleproroghe recentemente convertito in legge, sono state differite rispettivamente al 31 dicembre 2024 e al 31 dicembre 2025.
Tale estensione, oltre a essere stata dichiarata contraria al diritto dell’Unione europea con la recente sentenza del Consiglio di Stato, è stata oggetto di serie preoccupazioni manifestate dal Presidente della Repubblica in una lettera datata 24 febbraio 2023 e indirizzata ai presidenti di Camera e Senato e alla presidente del Consiglio dei Ministri.
Per quanto qui rileva, la lettera evidenzia come il carattere «frammentario, confuso e precario» della normativa prodotta attraverso gli emendamenti produca difficoltà interpretative e applicative, che, nel caso delle c.d. “concessioni balneari”, sono significativamente acuite – se non financo aggravate – da un quadro normativo, ma anche giurisprudenziale e amministrativo, che è a sua volta disorganico e a tratti disomogeneo.
D’altro canto, come ricordato dal Presidente della Repubblica, non solo le ultime disposizioni di proroga sono difformi dal diritto dell’Unione europea tanto di natura primaria quanto di natura secondaria, ma si pongono in un rapporto “patologico” con le stesse pronunce dell’Adunanza plenaria, che potrebbero indurre «gli enti concedenti [a] ritenersi comunque legittimati a disapplicare le norme in contrasto con il diritto UE e a indire le gare, mentre i controinteressati potrebbero [voler] impugnare eventuali provvedimenti di proroga delle concessioni, alimentando ulteriormente un già vasto contenzioso».
I profili critici emergenti dalla legge di conversione del milleproroghe, in particolare quelli relativi alle concessioni demaniali, avrebbero potuto giustificare, per il Presidente della Repubblica, l’esercizio della facoltà di cui all’art. 74 Cost., peraltro dichiaratamente evitato per la delicatezza, sotto il profilo costituzionale, «del rinvio alle Camere esercitato nei confronti di una legge di conversione di un decreto-legge a pochi giorni dalla sua scadenza».
L’avvenuta promulgazione, quindi, seppur inevitabile per la stessa “tenuta del sistema”, rischia di esacerbare un quadro giuridico già profondamente problematico, in particolare per la grave assenza di certezza del diritto e per il conseguente «disorientamento nelle pubbliche amministrazioni e nei destinatari delle norme».
Se è vero, infatti, che le sentenze “gemelle” dell’Adunanza planaria prima e la legge sulla concorrenza poi hanno contribuito a mettere dei “punti fermi” nella vicenda (e in questo senso è da leggere anche la recente sentenza della sesta sezione del Consiglio di Stato), è altrettanto vero che finché non interverrà un cambiamento più radicale, evidentemente rappresentato da un intervento normativo capace di condurre il sistema italiano al di là della situazione di stallo attuale, il quadro giuridico continuerà a essere critico e criticabile.
In attesa, quindi, dell’esercizio della delega – che è auspicabile, a questo punto, che avvenga entro la fine dell’anno e conformemente ai principi e alle regole “comunitarie” – interessante sarà leggere la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-348/22, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Comune di Ginosa), la cui pubblicazione è prevista per il prossimo 20 aprile. Tra le altre cose su cui sono chiamati a pronunciarsi i giudici, vi è anche l’efficacia diretta dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, su cui la Corte di giustizia (a differenza della giurisprudenza interna) non si è mai espressa. Tale aspetto non è privo di rilevanza: l’art. 12 si applica pacificamente anche a situazioni puramente interne (v., ad esempio, Corte giust., 30 gennaio 2018, cause riunite C-360/15 e C-31/16, Visser Vastgoed Beleggingen, punti 98 ss.), ma l’assenza di una dichiarazione esplicita della Corte sulla sua efficacia diretta ha portato alcuni giudici a pronunciarsi con sentenze quantomeno discutibili, proprio per la presunta impossibilità di applicare direttamente la disposizione (v., ad esempio, la discussa sentenza n. 1321/2020 del TAR Lecce, ma anche la stessa sentenza n. 981/2021, sempre del TAR Lecce, oggetto di riforma nella citata pronuncia del Consiglio di Stato del 1° marzo 2023).
È ben probabile che la Corte di giustizia si pronunci per la sussistenza dell’efficacia diretta, con ciò ponendo un ulteriore (e necessario) “punto fermo” in questa complessa vicenda, la cui risoluzione, peraltro, non può che passare per un serio (e definitivo) intervento normativo.
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